
(CHIARA SARACENO – lastampa.it) – Ogni donna che compie anche un silenzioso atto di ribellione contro stereotipi che la inchiodano in comportamenti e destini che non sente confacenti a sé e alle proprie figlie, che insegna ai propri compagni, figli, colleghi che le donne non solo vanno rispettate, ma sono soggetti liberi e che un rapporto di coppia, ma anche di generazione, può fondarsi solo sul riconoscimento della libertà reciproca, contribuisce al cambiamento nei modelli di genere e nei rapporti tra uomini e donne. Non occorre scendere in piazza per fare questo. Ma perché il cambiamento sia riconosciuto nelle norme legali e sociali, occorre che ci si mobiliti collettivamente, che si scenda in piazza, che la ribellione privata diventi pubblica.
Le «immense conquiste del femminismo storico» che qualche giorno fa su questo giornale Mastrocola ha dichiarato di apprezzare, le richieste del femminismo che Natalia Ginzburg, citata da Mastrocola, dichiarava di condividere in toto, pur non piacendole il femminismo, hanno potuto diventare almeno in parte realtà solo perché ci sono state donne che si sono mobilitate collettivamente, correndo il rischio delle semplificazioni degli slogan e anche del conflitto interno alle varie anime dei movimenti, oltre che dei costi sul piano personale e professionale.
Legalizzazione della contraccezione, dell’aborto, eliminazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore, riforma del diritto di famiglia che finalmente ha dato attuazione al principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione ma ignorato per trent’anni, riconoscimento dello stupro come reato contro la persona anziché contro la morale, eliminazione delle restrizioni di accesso alle professioni, leggi contro le discriminazioni, estensione dei congedi di maternità a tutte le lavoratrici e persino il riconoscimento del diritto dei padri al congedo: sono tutti cambiamenti avvenuti in conseguenza della mobilitazione dei movimenti delle donne.
Ovviamente, non basta scendere in piazza e non basta qualche slogan più o meno urticante per produrre cambiamento. Occorre un’azione costante, sostenuta da analisi adeguate, la costruzione di alleanze, tra donne e tra donne e uomini. Ma si parte sempre dalla denuncia di un’ingiustizia, di una situazione non tollerabile, che mobilita, diviene protesta collettiva e chiede risposte concrete, non occasionali.
I femminicidi e le violenze sulle donne in quanto donne sono appunto questo fatto ingiusto e intollerabile, non derubricabile a semplice patologia individuale e neppure genericamente imputabile ad una supposta fragilità delle identità nelle società contemporanee, ad una generica incapacità di reggere alle frustrazioni e ai rifiuti. Perché si tratta di uomini che aggrediscono e talvolta uccidono donne proprio in quanto donne, uomini che considerano le donne vuoi loro proprietà, vuoi a disposizione dei loro appetiti sessuali.
Perciò, che piaccia o meno, chiama in causa modelli di genere e di rapporti tra uomini e donne insieme asimmetrici e fondati su quella che chiamerei una rivendicazione proprietaria di dipendenza da parte di uomini rispetto alle donne con cui stanno o vorrebbero stare. Il termine patriarcato non è (più) adeguato a rappresentare questa modalità di stare nei rapporti di coppia e neppure per rappresentare le persistenti diseguaglianze di genere in società (e politica, nonostante una presidente del Consiglio donna), anche se rimane come nostalgia per un mondo che non lo garantisce più, come traspare anche dall’intervista di Vannacci ieri su questo giornale. Il patriarcato ha perso da tempo le proprie basi sociali e normative. Ma è rimasta, per quanto minoritaria e non sempre esplicita, l’idea di un diritto maschile ad essere soddisfatti nei propri bisogni e ad avere la precedenza nel mercato del lavoro, in politica, nelle diverse forme di riconoscimento sociale. Lo hanno da ultimo documentato i dati dell’indagine sugli stereotipi di genere.
Persino la fragilità, l’incapacità di uscire da una dipendenza affettiva, possono venir ribaltate in rivendicazione a ogni costo e con ogni mezzo di un diritto a non essere lasciati. Ovviamente, non tutti condividono questi stereotipi. Anche tra chi li condivide non tutti diventano violenti. Ma costituiscono un terreno di coltura non solo per le discriminazioni, ma per pretese di controllo e l’incapacità ad accettare di non essere ricambiati nella propria richiesta di dipendenza e a riconoscere, pur con dolore, la libertà dell’altra. A differenza di Mastrocola, trovo importante che tra gli uomini sia iniziata una riflessione autocritica, senza farsi spaventare (o legittimare a non fare nulla) dalle denunce semplificatorie di patriarcato. Perché il problema è come favorire lo sviluppo di identità maschili e di relazioni tra uomini e donne basate sull’uguaglianza, il reciproco rispetto, incluso il rispetto della libertà dell’altra/o, contrastando sia l’assunto di un privilegio di genere (maschile) nel fare e nel non fare, sia la mancanza di controllo delle proprie pulsioni ed emozioni.
È una responsabilità e un lavoro che certo devono avvenire nella quotidianità delle relazioni, in famiglia e fuori, da parte di uomini e donne. Ma che richiede anche una riflessione collettiva e ad ampio raggio, non limitata alla denuncia della violenza, cui devono partecipare, appunto, anche gli uomini. Non per dare lezioni o battersi il petto, ma per mettere in moto efficaci azioni di cambiamento. Allenare le proprie figlie a difendersi fisicamente dagli aggressori, come suggerisce Vannacci, non è sufficiente a proteggerle dalle discriminazioni, tanto meno a modificare l’immagine dell’uomo come potenziale aggressore.
Vuoi mettere il patriarcato della famiglia Agnelli, cara dipendente ?
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Quello va bene perchè garantisce la pecunia.
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Prima di usare certi termini bisognerebbe almeno documentarsi. Il patriarcato è una forma sociale, vigente soprattutto in epoca preindustriale, in cui nelle famiglie allargate, che vivevano nella stessa casa, l’ultima decisione spettava al membro più anziano (in alcuni casi non necessariamente maschio). Cosa c’entra una cosa simile con l’Italia industriale di oggi e soprattutto con un poveraccio che commette un delitto confuso e pieno di errori per poi finire in autostrada senza benzina? O con un generale che scrive un libro pieno di scemenze che ha successo solo perchè una parte sempre più consistente di cittadini ne ha le tasche piene di questo ridicolo “politically correct” e per reazione arriva a leggere persino quello? Se fossimo in una mentalità patriarcale non avremmo una natalità ai minimi storici e un calo costante dei matrimoni, i figli non verrebbero assegnati sempre alle madri e non saremmo pieni di uomini separati letteralmente rovinati dalle ex.
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Giustissimo, ma a giudicare dall’incipit della pagina Wiki sull’argomento, sembrerebbe che l’unico qua a non averlo fatto sia proprio tu.
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Patriarcato_(sociologia)
Inoltre, “rovinati dalle ex” suona come la classica excusatio non petita.
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Jonny caro, vedi i commenti:
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