Bibi e Zelensky, leader fuori stagione

(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it) – Ci sono personaggi di cui impressiona la potenza evocatrice della persona, che sembrano trascinarsi dietro la guerra e la nuvola pullulante di fantasmi del loro passato prossimo o remoto. Ma che non riescono a comprendere la necessità di conoscere il “désaouvrement’’ dei sorpassati, e la virtuosa tristezza dei giorni senza rischio né gloria. Parlo di Vladimir Zelensky e di Benjamin Netanyau. Ma dove è la comunanza, insorgete, tra il Churchill ucraino che ha fermato il nuovo Gengis khan che voleva inghiottire il mondo libero e il condottiero, stradiscusso, della Grande Israele e della vendetta totale su Hamas? Ebbene consiste nella più pericolosa sindrome che contagia i Capi, l’incapacità di capire quando è il momento giusto per mettersi da parte.

Perché gli uomini della guerra non sono quasi mai adatti a mettere insieme i cocci per una tregua che risparmi vite umane e crei un equilibrio accettabile per tutti. C’è un punto in cui i “lider maximi’’ diventano fuori stagione come un frutto eccessivamente maturo. Siedono come inattaccabili stiliti sull’alata colonna del loro carisma e della loro indispensabilità e non si accorgono che i fatti si sono spogliati delle vernici di previsioni o sbagliate o avventate. E loro, le guide supreme, ci appaiono nudi e crudi come è giusto che siano. Allora Zelensky: sempre corrucciato, in una tristezza intrisa di preoccupazione, un distacco che sfiora la superbia. Difficile discernere nella iattanza di quest’uomo cosa ci sia di scoperta ingenuità e di furbo calcolo. Le sue sobillazioni antiputiniane , i suoi “no pasaran” commisti di idealismi disperati e di croniche richieste, soldi e armi, ci hanno incantato per più di un anno. Gli eravamo grati per egoismo: urrah!ecco qualcuno disposto di buon grado a prendere le bombe al posto nostro e a immolare il suo popolo nelle spallate del Donbass. Come non farne una star dalle torride temperature , un eroe del nostro tempo che in cambio di qualche modesto sacrificio economico ci garantiva la vittoria collettiva? Forse un giorno i Grandi dell’Occidente dovranno chieder scusa al piccolo oligarca di Kiev, per averlo nominato generalissimo usandolo per puntellare un vecchio mondo pieno di crepe. Di fronte a questa platea osannante come non diventare un eroe che commercia il proprio eroismo come un tenore commercia la sua voce?

Zelensky è imprigionato con un fanatismo testardo, dogmatico e meticoloso nel mito della vittoria totale, la guerra può finire solo con la resa di Putin. A furia di controffensive miracolistiche e bugie sulla agonia russa ci ha convinto che non ci sono altre soluzioni della guerra. E quindi è indispensabile per evitare le tentazioni della resa. Nessuno ha il coraggio politico di dirgli che quella vittoria assoluta è impossibile e rischia di trasformarsi in ecatombe e disfatta. Che dopo due anni e centinaia di migliaia di morti lui non serve più, ci vuole un eroe ragioniere che cerchi, non la resa, ma solide garanzie di convivenza con la Russia. Zelensky, per di più, ha iniziato a intravedere complotti, a sospettare tradimenti, a scoprire che le leggi marziali servono sì contro il nemico esterno ma vanno a guanto anche per eliminare chi critica. Dopo che abbiamo passato mesi a immaginare una liberatoria congiura al Cremlino dobbiamo registrare come incubi un clima da coorte rinascimentale proprio nel Palazzo di Kiev.

Netanyahu, a sua volta, esiste per la guerra, resta al comando se la operazione vendetta su Hamas continua all’infinito e gli offre la più impermeabile delle coperture. La necessità di una “Unione sacra” di fronte al nemico è l’unica latitudine della sua sopravvivenza al potere. Il dopoguerra per lui è affollato di tribunali e inviperite commissioni di inchiesta sulla Caporetto del sette ottobre. Difficile in queste condizioni che compia l’unico gesto davvero grande nei confronti del suo Paese: dimettersi volontariamente. Sarebbe una svolta che aprirebbe ad altri la possibilità, a lui negata, di percorrere vie diverse dall’inestricabile groviglio del far “piazza pulita’’, di evadere dal cerchio della propria storia a senso unico, di rompere l’orizzonte.