Le potenze mondiali dovrebbero convocare un summit per fermare il conflitto e creare uno Stato palestinese. All’Occidente serve un accordo durevole tra leader responsabili, l’occupazione di terra produce solo terrorismo

(MASSIMO CACCIARI – lastampa.it) – Resisterà la tregua? Saprà svolgersi in una reale ricerca di accordo? Questo si chiedevano tutti qualche ora fa. La risposta sembra tragica: no, la guerra continua, si riaccende. Ma con quali prospettive? Eppure sembra del tutto chiaro che queste si riducono essenzialmente a due, e chiaro anche quali di ognuna siano le conseguenze. La prima alternativa è quella che tutti dovrebbero augurarsi e per la quale tutte le potenze globali dovrebbero lavorare: la convocazione di una Conferenza internazionale di pace. Soltanto essa potrebbe produrre mutamenti immediati negli assetti delle rispettive leadership, la cui inadeguatezza è palese, e riaprire le possibilità di accordi tra Palestina e Israele, possibilità calpestate da una parte e dall’altra dopo Camp David e Oslo. Solo una Conferenza di pace può avviare concretamente il processo verso la formazione di uno Stato palestinese, che non sia l’imitazione di un lager e dunque il grembo sempre fecondo di Hamas, di uno Stato retto da leader responsabili e dunque capace di riconoscere sine glossa il diritto a esistere dello Stato di Israele.
Esiste alternativa a questa strategia? Certo che sì. Considerazioni storiche, politiche e culturali la rendono possibile. Israele può infatti ritenere che la crisi dell’Autorità palestinese sia irrimediabile e che ormai non esistano alternative a Hamas. Allora la sua scelta non può essere che quella della guerra a oltranza fino all’occupazione della stessa Gaza. Se il governo di Israele è giunto alla convinzione che il pericolo rappresentato da Hamas e dalle formazioni sue alleate, sostenute in primis dall’Iran, non è superabile attraverso accordi e tantomeno attraverso la formazione di un vero Stato palestinese, non ha che un’alternativa di fronte: la formazione del Grande Israele. E la prima tappa è allora la distruzione dell’Autorità palestinese, constatata la sua incapacità a “contenere” l’assalto terroristico. Con la rottura della tregua questa sembra essere la strada che l’attuale governo israeliano è intenzionato a percorrere. Realpolitik insegna che le due opposte alternative sono entrambe possibili, e entrambe possono presentare solide ragioni a loro favore. Realpolitik significa affrontare le tragedie, non nascondersele e meno ancora piangerci sopra lacrime che, nel caso dell’Occidente, sono da miserevole coccodrillo.
Israele è convinto che non avrà mai sicurezza con un potere confinante da cui lo separano ormai decenni di sangue e distruzioni? Ha un fondamento il ritenere, da parte sua, che anche formali intenti di accordo sul proprio riconoscimento da parte palestinese non sarebbero che parole scritte sulla sabbia? Sì, è lecito che lo pensi. E le sue azioni non potrebbero allora che confermare tale idea. Portando la guerra fino all’ultimo a Gaza e moltiplicando le colonie nei territori. Israele può giungere a credere di non avere alternative per garantire la propria sicurezza.
Israele è in guerra dal momento della sua fondazione. Ma lo possono i suoi alleati? Non è compito loro, invece, rendere credibile la prospettiva della Conferenza di pace e realizzarla insieme a tutte le grandi potenze? È evidente che gli Stati Uniti ritengono che il proseguimento di una guerra volta alla distruzione dell’idea stessa di uno Stato palestinese non corrisponda affatto ai propri interessi, alla propria sicurezza, alla propria strategia geo-politica. Gli Stati Uniti, e dunque l’Occidente oggi americano, sa bene che il conflitto tra Palestina e Israele condotto nelle attuali forme è destinato a esasperare le posizioni estreme in tutto il mondo arabo e a “stressare” gli stessi alleati più fedeli, sauditi, emirati, sceicchi vari.
Per non parlare del terrorismo in Europa. Dunque, anche se il perseguimento della vittoria sul campo rappresentasse una strategia realistica per la sicurezza di Israele, non la sarebbe affatto per i suoi alleati. Ma quale sicurezza reale può raggiungere Israele destabilizzando la forza dell’Occidente che lo sostiene? L’occupazione di terra non assicura nulla e nessuno. Ciò che certo assicura è la guerra permanente, con l’inevitabile ricorso ad azioni terroristiche sempre più efferate. È solo una solida rete di alleanze, che dimostri concretamente di servire gli interessi di ogni suo membro, la garanzia per Israele, la sua risorsa fondamentale. E a tutti i suoi alleati ora serve la pace fondata su un accordo durevole tra leadership responsabili – agli Stati Uniti in primis, impegnati su due fronti che li mettono faccia a faccia col Nemico di un tempo e con quello di domani. Guai se si dovessero ulteriormente indebolire sul fronte medio-orientale, dopo i disastri in Iraq e in Afghanistan.
Non piace la parola pace? Realisticamente impossibile? Troppo irenistica? Chiamiamola allora Atto di Responsabilità per Arrestare il Massacro. L’Occidente dei Diritti dell’uomo se ne faccia promotore. L’acronimo – almeno nella nostra lingua – avrebbe un suono semitico bene augurale: Aram, che in arabo significa luogo sacro e inviolabile. Se a esso non è dato ai mortali accedere in vita, almeno un primo passo nella sua direzione è oggi senza dubbio negli interessi materiali di Stati Uniti e di Europa, e dunque dello stesso Israele. A questi almeno, se non ai nostri “valori”, dovremmo essere in grado di prestare ascolto. La ricerca del proprio utile potrebbe per una volta coincidere col bene comune – e soprattutto col bene di quelle donne e quei bambini bombardati a Gaza e degli altri che in Israele vivono nell’incubo di nuovi 7 ottobre.
Ciao core ! Toglieteli il fiasco e la penna ..
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Ec. Toglietegli
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