Il premierato di Meloni si fermi a Ciampino (come il Frecciarossa di Lollobrigida). Tutto si tiene, nel tronfio grumo di potere che mescola le menzogne di Delmastro e le intemerate di Crosetto, le fumisterie di Nordio e le bravate del ministro dell’Agricoltura. Fino alle riforme della presidente del Consiglio

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Come nel peggiore degli incubi, l’Italia meloniana si risveglia berlusconiana. Ministri indagati e sottosegretari processati, ossessioni complottistiche e manipolazioni mediatiche, agguati ai magistrati e imboscate agli oppositori, pseudo-riforme della giustizia e contro-riforme della Costituzione.

È il morto che afferra la viva, l’Unto del Signore che insegue la Underdog, il fantasma del Cavaliere che assilla la Sorella d’Italia. Certo, alla “Donna sola al comando” manca il carisma titanico e tragico dell’Uomo di Arcore, così come alla nuova “destra all’amatriciana” manca l’epica eroica del predellino e del “Popolo delle Libertà”. Eppure, fatte le debite proporzioni, in sette giorni il Paese sembra quasi tornato indietro di dodici anni.

Tutto si tiene, nel tronfio grumo di potere che mescola le menzogne di Delmastro e le intemerate di Crosetto, le fumisterie di Nordio e le bravate di Lollobrigida, fino ad arrivare al “premierato all’italiana” di Meloni.

Al fondo — e al netto di un irreplicabile conflitto di interessi — c’è la stessa pulsione turbo-populista e autocratica che marchiò a fuoco i vent’anni del berlusconismo da combattimento. La vittoria elettorale come conquista del Palazzo d’Inverno e il voto popolare come unica legittimazione possibile, l’uso proprietario delle istituzioni repubblicane e l’abuso arbitrario delle funzioni governative.

Chiaro, oggi mancano il “Sistema Berlusconi” e la “Struttura Delta”, che a beneficio del Capo sfornavano leggi ad personam e senso comune. Ma di “originale” — la presidente del Consiglio e i suoi Fratelli accampati per decenni nella Terra di Mezzo della minorità tolkieniana — ci hanno aggiunto tre cose. La gioia feroce con la quale occupano tutti i posti a sedere, invece di preoccuparsi di guidare la macchina. La rivalsa rabbiosa verso tutti i nemici, reali o immaginari, che gli intralciano ancora la strada. Il dilettantismo un tanto al chilo, perché Mantovano non è Gianni Letta e Fazzolari non è Niccolò Ghedini.

In un Paese normale, come ha scritto Carlo Bonini, Andrea Delmastro non potrebbe restare seduto un minuto di più sulla sua poltrona. E a questo epilogo necessario non ha senso opporre la risibile “clausola del buon garantista”, che i mozzorecchi post-missini di ieri invocano oggi per difendere un indifendibile.

Basta la Ragion Politica a giustificare le dimissioni immediate di un sottosegretario alla Giustizia che, per consentire al “camerata” Donzelli di bastonare l’opposizione in un’aula parlamentare, non ha esitato a forzare le procedure interne alla Polizia Penitenziaria e a utilizzarne come una clava i “Rapporti Riservati”.

La premier non ha nulla da dire adesso, come non ebbe nulla da dire allora, quando si limitò ad agitare ancora una volta lo spettro della sovversione, urlando «la democrazia è sotto attacco!» di fronte a un centinaio di anarchici che manifestavano per Alfredo Cospito.

In un Paese normale — dopo il caos che ha sollevato accusando «l’opposizione giudiziaria» e una «corrente della magistratura che vuole fermare la deriva antidemocratica cui ci porta Meloni» — uno come Guido Crosetto dovrebbe chiedere scusa e tacere. Nossignori: persino lui, tra i più autorevoli della compagine, si erge a vittima di un «plotone di esecuzione».

Eppure abbiamo sprecato una settimana, a chiederci se nelle parole del ministro della Difesa risuonasse l’eco del “tintinnare di sciabole” di un colpo di Stato o soltanto quella delle “chiacchiere da Bar di Guerre Stellari” (come diceva Tremonti, quando vedeva Crosetto e Brunetta alla buvette di Montecitorio).

Ora l’abbiamo capito. Parafrasando Troisi: pensavamo fosse un golpe, invece era un calesse. Ma intanto il danno è fatto: i pozzi sono avvelenati e il vento del discredito soffia forte su un potere giudiziario già malconcio di suo, dopo lo scandalo Palamara.

E forse l’obiettivo è proprio questo: “mascariare” e intimidire, meglio ancora se alla vigilia dell’eventuale rinvio a giudizio della ministra Santanchè o del figlio del presidente del Senato, Apache La Russa.

In un Paese normale, per tutte queste ragioni, un ministro della Giustizia come Carlo Nordio non continuerebbe a sparare bombe carta e a spacciare “cronoprogrammi”. Si libererebbe una volta per tutte della sua maledizione, un ex pm liberale prestato a un partito di ex forcaioli. E presenterebbe una riforma organica dell’ordinamento giudiziario, invece di annunciarne “pezzi” alla rinfusa senza approvarli mai (vedi separazione delle carriere e intercettazioni).

Niente di tutto questo. La Rivoluzione dei Patrioti si limita a smerciare “ideologia carceraria” e a codificare i “nemici opportuni” in altrettante novelle del Codice Penale (come ha scritto Luigi Manconi).

E dunque, via con l’orgia securitaria dei delitti e delle pene modellate sui palinsesti da tv della paura: rave illegali e monumenti imbrattati, gestazione per altri e occupazione abusiva di case, mamme incinte in galera e rivolte nei Cpr. Un clima da emergenza permanente, utile a ingrassare le premesse psico-politiche sulle quali si fonda il bisogno dell’Uomo o della Donna Forte.

Arriviamo così alla «madre di tutte le riforme», l’elezione diretta del presidente del Consiglio, che spiega tutto e ingabbia in un metodo la follia imperante. Meloni chiede agli italiani: «Non vorrete continuare a far scegliere ai partiti chi vi deve governare?».

Basterebbe già questa domanda retorica a svelare il diavolo nascosto nel “golpetto” destrorso: gli italiani, votando direttamente il Capo del governo, gli conferirebbero una fonte di legittimazione infinitamente maggior di quella del Capo dello Stato che invece, meschino, continuerebbe ad essere eletto dai partiti.

Le antinomie di questo Frankenstein normativo le ha già spiegate tutte Gustavo Zagrebelsky: dal superpremio di maggioranza, che configurerebbe una “Costituzione incostituzionale”, allo stravolgimento senza contrappesi, che consentirebbe alla coalizione vincente di eleggersi Capo dello Stato, giudici costituzionali, membri del Csm e autorità indipendenti. Più che una “democrazia d’investitura”, quasi una “dittatura elettiva”.

Sergio Mattarella, finora, non ha parlato di questa contro-riforma. Ma la cosa che più lo preoccupa, verosimilmente, è che questo premierato, con la falsa promessa della “democrazia decidente”, in realtà paralizza il circuito politico-istituzionale. Soprattutto nelle fasi critiche, e ne abbiamo vissute tante in questi ultimi anni, tra crisi dei debiti sovrani, Covid e due guerre.

In un regime bipolare ma non bipartitico, con governi di coalizione, come si fa a concepire un reincarico solo al premier eletto, o in subordine al suo second best? E come si fa a inchiodare quest’ultimo al rispetto “degli impegni programmatici sui quali il presidente del Consiglio precedente aveva ottenuto la fiducia”? Quale autorità “terza” stabilisce se li ha rispettati o disattesi?

Da Ciampi a Mattarella, l’esperienza dimostra che dalle crisi politiche si esce sempre con soluzioni “creative”. Anche in Europa i sistemi che reagiscono meglio alle emergenze sono quelli semi-rigidi, nei quali le istituzioni hanno margini di flessibilità controllata per ripristinare e/o assicurare la piena fisiologia democratica.

In caso contrario — tornando a Zagrebelsky — si condannano ai letti di Procuste o alle camicie di forza. Per questo, nei prossimi mesi, noi cittadini dobbiamo sperare che il treno del Premierato meloniano finisca su un binario morto. O che magari si fermi a Ciampino, così scendiamo tutti.