Il presidenzialismo non dipende dal presidente, bensì dai suoi poteri. In Italia di una riforma in senso opposto a quella disegnata dai costituenti si vagheggia da anni. Come del ponte sullo Stretto di Messina

(di Michele Ainis – repubblica.it) – Il presidenzialismo è come il ponte sullo Stretto di Messina: vagheggiato per decenni, più volte progettato, disegnato da architetti d’ogni sorta su fogli di carta svolazzanti, promesso ripetutamente da politici di destra e di sinistra per il giorno dopo o l’altro dopo ancora – senza cavare mai un ragno dal buco. Adesso però il ragno sta per uscire dal suo buco. Sul ponte manca ancora la prima pietra, anzi non c’è nemmeno un sassolino. Ma i cantieri del presidenzialismo viceversa sono aperti, gli operai al lavoro. La buca è scoperchiata, sta per uscirne la creatura. Converrà quindi guardare da vicino questo ragno, studiarlo, esaminarlo. Potrebbe morderci, anziché trasformarci nel paese delle fate.
La parola, la cosa: presidenzialismo
Ma che cos’è il presidenzialismo? Una “forma di governo”, cioè uno dei modi con cui avvengono la trasmissione e l’esercizio del potere, distribuendolo fra i vari organi costituzionali. Si distingue perciò dalla forma di governo parlamentare, scelta dai costituenti italiani nel 1947; ma non perché in quest’ultima manchi un presidente, né perché il presidenzialismo cancelli il Parlamento. Una o due assemblee parlamentari s’incontrano dovunque, benché nei regimi autoritari vengano ridotte a un simulacro, senza peso né poteri. E un capo dello Stato – monarca o presidente – c’è in tutti gli ordinamenti.
Insomma, il presidenzialismo non dipende dal presidente, bensì dai suoi poteri. Che sono poteri di governo, non di garanzia, come quelli attribuiti a Mattarella. E che derivano dall’investitura popolare che bagna il presidente.
Da qui il tratto che distingue il nostro ragno da tutti gli altri ragni della zoologia costituzionale: l’elezione diretta del capo dello Stato. Che però talvolta avviene attraverso un’elezione di secondo grado: gli elettori scelgono dei «grandi elettori», che a loro volta scelgono il futuro presidente.
Così nella Francia della V Repubblica tra il 1958 e il 1962, in Finlandia dal 1986, negli Stati Uniti fin dal 1787. Anche se negli Usa i 538 grandi elettori rispettano sempre il proprio vincolo, mantenendosi fedeli al candidato per il quale erano stati scelti (nelle 58 elezioni presidenziali della storia americana i faithless electors, gli elettori infedeli, sono stati 88 appena). Di fatto, quindi, è un’elezione diretta pure quella.
Perché Obama non avrebbe potuto conquistare il Quirinale
Anche i requisiti che deve possedere il presidente, la durata della carica, la possibilità di rielezione, sono mutevoli nei diversi ordinamenti. L’età, per dirne una: negli Stati Uniti basta aver compiuto 35 anni, in Italia il presidente della nostra Repubblica parlamentare deve avere mezzo secolo di vita sul groppone. Sicché Kennedy (eletto nel 1960, all’età di 43 anni) si è guadagnato un posto nella storia guidando la massima potenza del pianeta, ma non avrebbe mai potuto varcare il Quirinale; e come lui Obama (eletto per la prima volta nel 2008, a 47 anni).
Non c’è però, né in America né altrove, un’età massima per sedere in quello scranno; in teoria, la porta è aperta pure ai centenari. O quasi, come dimostra (nel 2020) il successo di Joe Biden, che di anni ne aveva già 77. Ma sempre meno di Napolitano, eletto a 87 anni per il suo secondo mandato (nel 2013).
Quanto alla durata in carica, in genere coincide con la legislatura, per evitare la difficile convivenza del presidente eletto con una maggioranza parlamentare dal colore opposto. Succedeva in Francia, prima della riforma costituzionale del 2000 che ha allineato i due mandati elettorali; ed erano scintille (per esempio durante la coabitazione fra il presidente socialista Mitterand e il primo ministro gollista Chirac, dal 1986 al 1988).
Al contrario, quando il presidente svolge un ruolo di garanzia, anziché di governo, la sua permanenza nella carica è maggiore rispetto alle assemblee legislative, proprio per favorirne l’indipendenza dalla maggioranza politica di turno. È il caso dell’Italia, dove al Quirinale ci si va per 7 anni, in Parlamento per 5.
Le riforme di Arlecchino
Dunque il presidente eletto è molto potente, se non anche onnipotente. Ecco perché i sistemi democratici pongono limiti alla sua rielezione. Accade nella più grande democrazia di questo mondo per il suo comandante in capo: due mandati e basta. Effetto d’una regola introdotta nel 1951, attraverso il XXII emendamento alla Costituzione americana; non a caso, dopo i quattro mandati consecutivi d’un presidente che pure si chiamava Roosevelt. Ma invece non accade nella riforma abbozzata dal governo Meloni. Perché «il genio italico predilige l’arlecchinismo costituzionale, e approda così all’invenzione di bastardi senza capo né coda, oppure con il capo al posto della coda», scriveva Giovanni Sartori nel 2003. Viceversa i modelli in circolo, a occhio e croce, sono tre. (1 – continua)
E questo ERA il presidenzialismo…ma questi vogliono il premierato.🤦🏻♀️
Alla prossima puntata.
Grazie, Ainis!
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