(Giuseppe Di Maio) – L’ultimo fu Bossi, quando nel dicembre del ’94 abbandonò la maggioranza e causò la fine del Berlusconi I. Un caso unico nel panorama delle destre: nessun’altra volta in quella parte dell’emiciclo ci sono stati problemi di coalizione. Tant’è vero che tutte le leggi elettorali a sostegno della governabilità alla fine danno la vittoria al mucchione di destra. L’altra congerie, invece, è stata sempre afflitta da problemi di tenuta: rivolte ideologiche come quella di Bertinotti nel Prodi I, e cambiamenti di fronte come Mastella nel Prodi II.

Non appena la legge elettorale maggioritaria distrusse le alleanze del centro moderato in funzione anticomunista, istantaneamente nacquero partitini bifronte che minacciavano di sostenere or l’uno or l’altro schieramento. I più recenti di questo polverio opportunista sono Azione di Calenda e Iv di Renzi, che in fin dei conti esistono solo perché si sono messi a cavalcioni fra le forze contrapposte. Uno dei modi per uscire dal ricatto dei cespugli superando la vera destra e la vera sinistra fu quello che passò per il “Patto del Nazareno”, una specie di riedizione del compromesso storico ma non proprio a vantaggio della governabilità, solo della sopravvivenza dei contraenti. Quel patto elettorale fallì, e l’asse conservatore di PD e FI dovette cedere il passo alle nuove fortune dei reazionari e dei radicali.

Intanto nell’emiciclo mancino scorreva l’album delle foto: nel ’96 Prodi Veltroni e Bertinotti alzavano uniti la bandiera; nel 2011 la foto di Vasto tra Bersani Di Pietro e Vendola illuse per una stagione le anime progressiste; due anni dopo la diretta streaming tra Grillo e Bersani sprecò il parlamento più a sinistra della storia italiana. L’altro giorno a piazza del Popolo il riaccostamento tra ricci sospettosi apre un’altra stagione di speranze. Il PD è un partito conservatore, e ancor più lo sono le sue dirigenze, nelle loro spire si è estinta la missione della sinistra. Il compianto De Masi credeva che senza il partito democratico il popolo radicale rappresentato dal M5S non avrebbe mai potuto trovare alleati tra la gente dei quartieri del centro, ma mancò di sottolineare che quella gente resterà sempre conservatrice: ottusa alle emergenze del Welfare, alle iniquità del lavoro, della giustizia negata e della sanità di classe.

La sinistra non è un posto nei banchi del Parlamento, essa è un luogo dove si elaborano e si perseguono politiche che diminuiscano la disuguaglianza sociale e favoriscano la distribuzione della ricchezza. Se il M5S ha rinunciato a sostituire le classe dirigenti del PD, adesso deve fare i conti con queste pericolose parentele e con i loro prevedibili voltafaccia. Oltre al concreto “campo giusto” opposto al vago “campo largo”, Conte dovrebbe indicare obiettivi precisi e irrinunciabili che imbriglino l’indefinito compito della sinistra e le sue effimere formule. Ma pare che la storia si stia ripetendo.