
(di Massimo Gramellini – corriere.it) – La storia di Umberto D’Amato si può raccontare come l’ennesima falla del sistema: un uomo in costante litigio con il vocabolario, sventolando un falso diploma, riesce a insegnare per cinque mesi in una scuola elementare di Cremona. L’ha smascherato la preside, insospettita dai continui sfondoni di ortografia e da un indizio altrettanto rivelatore: non si capiva niente di quel che diceva.
Esauriti l’indignazione e lo sghignazzo, vi prego di seguirmi in un viaggio accidentato dentro la testa del protagonista. Non stiamo parlando di un tipo preparato e però privo del diploma (se ne sono visti), ma di uno palesemente inadeguato, a prescindere dal pezzo di carta. Aveva già provato un’altra volta a salire in cattedra, quindi quella dell’insegnante era proprio la sua ossessione (lui l’avrà chiamata «vocazione»). Ed eccoci al punto. Una persona che si sente invasa dal sacro fuoco di una passione — insegnare, cucinare, dipingere — non dovrebbe sforzarsi di acquisire gli strumenti minimi per soddisfarla? Come si può desiderare per tutta la vita di trasmettere la grammatica ai bambini, se prima non la si è studiata? Saltare questo passaggio non è solamente sintomo di cialtroneria, ma di mancata consapevolezza di sé: poiché ho sempre sognato di fare il pilota, salgo su un aereo senza avere mai preso lezioni di volo e mi metto alla cloche. Abbiamo fatto credere alle persone che possono diventare tutto ciò che vogliono. Invece ciascuno diventa solo ciò che ha imparato a essere.