(Giuseppe Di Maio) – Portava sempre la stessa giacca striminzita sopra la lana dei maglioni e dei gilet, anche quando sgobbava nello stanzone affollato della Biblioteca Alessandrina. Mahmoud era un palestinese di Nazareth e studiava con noi medicina alla Sapienza. Diceva che suo padre aveva un’azienda di trasporti, ma io, senza dirglielo, ho sempre immaginato quattro camionette sgangherate che alzavano polvere sulle piste della Galilea. Mahmoud era di terra, un provinciale: fisico possente e carattere serio: conosceva bene e non dimenticava mai il suo obiettivo. Lui voleva essere medico, ma di più voleva contare in mezzo ai suoi concittadini che in maggioranza erano ebrei. Non ci seguiva quando andavamo in centro a rimorchiare, quando facevamo festa, quando parlavamo di rivoluzione, e io odiavo il suo spirito privato. Lui non faceva il “comunista”, aveva la sua guerra, che combatteva sui libri della facoltà.

Chi volesse avere un’idea delle ragioni dei Pogrom, deve assolutamente vedere il film cecoslovacco del ’65 “Il negozio al corso” dei registi Ján Kadár e Elmar Klos. Qui è stupendamente descritto come il razzismo sia il mezzo per manomettere le leggi della concorrenza, come l’aspirazione di ogni essere umano sia raggiungere il vertice della società, e la sua realtà sia la lotta di classe. Alla luce di questa legge eterna, si fa evidente la ragione di tutte le guerre: cambiare con la violenza i fattori che determinano la competizione sociale e civile. E in Palestina il razzismo è deflagrato con la massima brutalità.

I nostri mali generarono il Sionismo e poi fecero l’Olocausto. Il virus interiorizzato dalle vittime si traferì nel giovane Stato di Israele che per sopravvivere fu costretto a diventare la sentinella d’Occidente in una terra che non vuole né giudei né europei, per quanto Mahmoud mi avesse detto: “Mangia con un ebreo, ma dormi con un cristiano”. Prima del ’47 non c’era nessuna jihād, nessuna guerra santa se non qualche scaramuccia tra beduini che volevano seguaci. Da allora in poi è stato acceso il fiammifero in una polveriera.

Pare quasi che le vicende del giovane Stato seguano un copione biblico, come quello del furto della primogenitura tra Giacobbe ed Esaù; salvo notare che gli Esaù palestinesi non hanno ricevuto manco il piatto di lenticchie. Insomma Israele (proprio il nome di Giacobbe) è in ogni senso un errore, che ha causato una convivenza impossibile; le leggi civili e democratiche sono state totalmente sostituite dalla forza. Se uno vive con un oppressore che lo tiene per le palle e non ha alcuna possibilità di migliorare la propria condizione sociale, allora il suo odio diventa inestinguibile, poiché se non c’è requie nelle guerre tra i vicini, figurati tra condomini. E’ una guerra civile, una guerra totale, in cui l’aggressore è un ladro e il derubato un terrorista; ognuno ambisce a non avere concorrenti. Ma soprattutto è una faida. Perché come recita un adagio irpino: “Chi chiange vole veré chiange”, ossia chi piange vuole avere compagnia nel pianto.

Non ho notizie del mio amico Mahmoud, ma credo che ora, se è vivo, è stato costretto a fare politica nonostante il suo spirito privato, e di certo è rivoluzionario.