I regimi hanno sfruttato la causa dei palestinesi e lucrato sulle promesse di riportarli nella loro patria. Il panarabismo serviva a dirottare la constatazione della miseria, le dittature interne, l’inefficienza

La brutalità dimostrata da Hamas figlia dell’ipocrisia del mondo arabo

(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it) – Che guaio questo sabato insanguinato firmato da Hamas! Nei Palazzi monarchici, emirali e presidenziali, nelle cancellerie arabe sono ore gravi, tra testa e midolla rombano timori funerei. La loro prassi fitta di ingegnose casistiche per trafficare indulgenze, la politica mercantile, comoda che veleggiava tra il cinismo pragmatico e la furberia infingarda con cui si pensava di aver disinnescato la annosa seccatura dei “fratelli” palestinesi, di averla avviluppata come il ragno sempre avviluppa la mosca, è andata in frantumi in diretta video.

Hamas brutalmente, con micidiale programmazione, ha decretato che l’età dell’inerzia dopo anni è finita, e il mutamento comincia subito. Senza che si possa dire cosa verrà da questo imperativo categorico. Noi siamo liberi di dedicare a questi abomini attenzioni brevi o ignorarli, possiamo inventare mitografie sull’avanzare di moderazione e buon senso reciproco. Qui invece non si ha scelta. Le somme della violenza si tirano ogni giorno. E nulla può esser lasciato fuori. Ogni singolo individuo in Israele e nel mondo arabo è coinvolto, è partecipe di questa terribile storia complessiva.

Sembra passato un secolo da quando la congrega promiscua degli Al Sisi, dei principi ereditari e dei petrolemiri veleggiavano su tempi tranquilli, tra citazioni di Abramo nominato pacifista ecumenico e buoni affari con l’occidente, intanati nei loro orizzonti da cortile dove quel che conta è la saldezza del potere e tener a bada i loro “terroristi” che spesso altri non sono che oppositori e dissidenti. E invece… Quei forsennati di Hamas, in combutta con i diabolici eretici di Teheran, hanno realizzato quello che loro da settanta anni, feudali o sinistrorsi che fossero, proclamavano a parole: Israele è un problema panarabo e va liquidato, in senso letterale!

Sono entrati in Israele, come i loro eserciti e i loro carri armati non sono mai riusciti a fare, hanno ucciso e preso prigionieri e ostaggi. Soprattutto hanno insinuato nell’onnipotente stato ebraico il tarlo della fragilità; il dubbio che la sua Forza non sia sufficiente o che stia declinando. Proclamano alle piazze arabe: Israele, vedete, è in scompiglio, forse in ritirata, esitano perfino a vendicarsi ed è merito nostro, con poche centinaia di guerrieri e armi elementari come kalashnikov e lanciarazzi mediocri. I vostri governanti, venduti all’occidente e traditori, Abu Mazen e i che cosa hanno fatto se non dimenticarvi nelle immondizie di Gaza? Ora si gioca a carte scoperte.

Hamas fa parte dell’Internazionale islamista, mille sigle per un unico scopo, credono nella redenzione mediante lo spargimento di sangue, la loro strategia è il potere dei morti sui vivi. Isis ha scavalcato per primo l’orizzonte esclusivamente terroristico, settario di al Qaida. Ha inventato il califfato, la guerra totale, i mille focolai jihadisti da attizzare “tout azimut”. Ma aveva un debolezza iniziale, per arruolare i credenti nell’ecumene musulmano usava un manifesto muffito, da libro di storia: restaurare nientemeno! Il califfato di mille e più anni fa, qualcosa di remoto, una vittoria per cui non bastavano secoli. A cui venivano immolati più musulmani, sbrigativamente definiti apostati, che infedeli. Per resistere e allargarsi il Califfato, dopo le brevi fortune dello stato islamico nella terra tra i due fiumi, ha dovuto cercare di sedurre i margini più periferici e disperati del mondo dell’Islam. Come l’Africa australe, il sahel e le banlieu occidentali.

C’era dunque bisogno di una “buona causa”, attuale vibrante semplice condivisa, che parlasse innanzitutto alla masse arabe. Era, per i palestinesi di Hamas, a portata di mano, già pronta, surriscaldata da decenni di sconfitte e indifferenza: annientare lo Stato degli ebrei e cancellare il peccato originale del 1948, la macchia finora inestinguibile, riconquistare Gerusalemme.

A esser dunque nel mirino sono i leader arabi che, sconfitta dopo sconfitta, compromesso dopo compromesso, hanno imboccato la strategia del perder tempo, dell’emettere frasi vuote, del dire e non dire, alternando estremismi propagandistici a uso interno con impotenze. La via della ipocrisia, perché anche loro eliminerebbero Israele ma non possono permettersi di dirlo. I palestinesi stavano immersi nel luridume di Gaza o nella cartapesta del quasi Stato. Spiravano furiose arie d’odio, era difficile acquietare gli escandescenti, cresceva l’esercito degli aspiranti uomini bomba. Si susseguivano senza esito le intifade e loro minacciavano, maledivano, deprecavano e poi… niente: siamo a fianco dei palestinesi finché sarà necessario e poi Mubarak e Al Sisi erano a libro paga degli americani con l’obbligo di non disturbare Israele.

I regimi arabi hanno sempre sfruttato la causa palestinese, lucrato sulle promesse bellicose di riportarli in Palestina per cancellare la Catastrofe del 1948. Il panarabismo della Causa serviva a dirottare la constatazione della miseria, le dittature interne, l’inefficienza, il culto delle mazzette.

I palestinesi sanno bene che le guerre contro Israele servivano a evitare innanzitutto che i paesi arabi rivali si impadronissero della Palestina. Nasser mirava a unire il mondo arabo, cacciare via i capi che giudicava reazionari, e eliminare lo stato di Israele. Ma fece fiasco nello Yemen, fu sconfitto nel Sinai e la sua famosa abilità politica non produsse altro se non cadaveri che nel deserto del Sinai si liquefacevano nella sabbia.

In mezzo agli arabi i palestinesi sono un gruppo distinto. Non si sono mai sentiti a casa propria in questo o in quel Paese arabo. Tra i profughi è cresciuto uno stato d’animo che condannava la assimilazione in altre società arabe come un atto di slealtà verso il dovere di tornare in Palestina. Nelle generazioni è cresciuto l’odio e il desiderio di tornare da conquistatori e da padroni. All’inizio mischiarono marxismo e terrorismo e scelsero come guide spirituali Mao e Fanon. Poi è venuta la generazione di Hamas e la guida è diventato il jihad.

Nei Palazzi arabi si è tirato un sospiro di sollievo venerdì: la giornata della preghiera e della collera, con negli occhi le immagini di Gaza, poteva diventare un incendio generale. Si temevano contagi interni, gli unici che preoccupano. A sfidar divieti e manganelli non sono state le temute folle inferocite. Si è tirato un sospiro di sollievo, il contagio non c’è. Si può continuare a indignarsi per la punizione israeliana, a organizzare vertici (dopo una settimana), a tener chiuso il valico di Rafah per evitare “invasioni”, a ricevere Blinken e annessi europei.

Ma la seduzione di Hamas non viaggia nelle piazze, lavora lentamente nelle discussioni e nei confronti che si fanno in casa guardando e riguardando quelle immagini, nei caffè, in piazza dopo la preghiera. È sotterranea, ma corrode.

Identiche illusioni in occidente: gli arabi, a parte gli intenti patibolari dei jihadisti, sono moderati o rassegnati. Si continua dunque a chieder aiuto ai nostri cari alleati in Egitto, Giordania, Arabia saudita, Qatar anche se si tratta di ricchi farabutti e di smascherati politicanti corrotti, si presuppone che le popolazioni comprendano approvino e legittimino i loro scopi. Chi conosce il mondo arabo sa che questo presupposto, soprattutto per quanto riguarda l’esistenza di Israele, equivale alla ricerca della pietra filosofale.