Da una parte centinaia di ragazzi, musica, balli, la “globalizzazione della felicità”. Dall’altra giovani con coltelli e kalashnikov, il “kit per il paradiso”, il massacro e il martirio. Due mondi divisi da pochi chilometri, una recinzione l’immagine della nostra fragilità e insicurezza

(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it) – Lo sbarramento, la frontiera di ferro e cemento, l’argine tecnologico sofisticato robusto, insomma moderno, sabato scorso stava lì a poca distanza, un chilometro. Rincuorava, nel fatalismo orientale di questa guerra che dura da settanta anni, così crudele da consistere, non come le altre, in una serie di battaglie ma in una serie di tragedie. Era, comunque la si guardasse da entrambe le parti, la fine di un mondo, del mondo. Israele e Gaza, di qui Israele di là Gaza. È difficile, lo so, sfuggire a questo incantesimo, che una muraglia si carichi di un effetto magico, guardandola dai due lati, e sia una garanzia incrollabile o uno sbarramento invalicabile. Si fa in fretta a venderla come eterna. Si crede a questa eternità come gli indigeni delle foreste credevano nelle forza dello stregone.
Ora dobbiamo ricostruire le due scene, mettendo insieme i frammenti: come i brani di una lettera strappata, pazientemente. Per la parte israeliana non è difficile: le scene, i rumori della festa musicale che si svolgeva a pochi passi dal confine più gonfio di rabbia del mondo, più impregnato di odio, sono così forti e vivi che hai l’impressione, dolorosa, di sentirli fisicamente. Perché sai che cosa accadrà poco dopo, il massacro i sequestri la guerra. È dall’altra parte che la lettera è stata nascosta così bene che si può partire, per rimetterla insieme, solo dal momento in cui la barriera è stata abbattuta, perforata, scavalcata, sorvolata dai miliziani di Hamas.
Quello che ci interessa non è sapere come questo organismo altamente sviluppato sia stato trasformato in una medusa amorfa, le sue ossa di ferro e di cemento siano diventate molli e i suoi tendini, i suoi nervi sensibilissimi si siano in pochi istanti decomposti. Ci interessa fissare i due mondi separati, ancora per poco, dal muro.
Allora. Da una parte c’è un popolo di ragazzi che vive. Ovvero cerca con la musica il ballo l’amore la festa di essere se possibile felice o meno infelice per qualche ora. Il tutto si svolgeva all’aperto. Questo aiuta. Non ci sono monumenti, indicazioni stradali architetture tipiche; solo alberi e sabbia. Se sfuocate il paesaggio della Palestina e lasciate in primo piano solo i protagonisti del festival potreste spostare questa scena in qualsiasi luogo dell’isola Occidente, il Nord America , l’Europa, l’Australia, il Giappone. C’è la musica, così anonima, banalmente universale che potrebbe sbucar fuori da ogni autoradio occidentale. Non è importante il tipo della festa, “rave”, alcol spinelli modeste trasgressioni. Porta fuori strada. È una istantanea di vita della gioventù del nostro mondo. Israele è un pianeta molto complesso e drammatico, per storia, cultura, teologia, politica, vi convivono negli ultimi tempi con attriti e rifiuti comunità diverse. Ma per coloro che stanno al di là di quel muro Israele, dal 1948, è una scaglia dell’Occidente ricco, potente e tracotante che lo ha piantato con la forza sulle loro divisioni e debolezze. E questo non lo pensano solo gli estremisti e i fanatici religiosi. Siamo noi da questa parte del muro, il nostro modo di vivere nel bene e nel male, la nostra idea del mondo che è il diritto anche alla felicità.
Non c’era traccia di paura di allarme tra quei ragazzi, non la paura che viene per quello che potrebbe accadere ma neppure per quello che c’è già stato. Eppure in occidente la paura esiste, paura della povertà della malattia del diventare poveri. Sì, la paura è un lusso e noi ce la possiamo permettere. Cinquanta anni fa sarebbero stati nei kibbutz, in uniforme anche per una festa, l’Uzi il fucile sempre a porta di mano, pronti a respingere l’attacco che poteva arrivare da ogni lato come una nebbia che ristagna sempre. Erano i figli e i nipoti di pionieri, erano nati e cresciuti nella guerra, nella minaccia. Quel tempo lo sentono come passato: con la certezza della superiore potenza, con la pace raggiunta con gli stati vicini, i loro raiss e presidenti, forse come si stava annunciando addirittura con emiri e monarchi wahabiti. Sì, c’erano i palestinesi, inaggirabili come un macigno. con loro tutto era eternamente sospeso in un vuoto di patti e rifiuti. ma in fondo gli eredi dell Olp di Arafat sono un branco di politicanti addomesticati dalla predilezione per il potere e per la corruzione. Innocui.
Adesso spostiamoci dall’altra parte. Perché davvero, sabato scorso, dal rassicurante al terrificante non c’era che un passo. Mentre il dj manovrava i suoi strumenti e alzava la musica, a poca distanza dalla recinzione, c’erano altri giovani che controllavano le armi, infilavano i curvi caricatori con trenta colpi nei kalashnikov, cercavano il loro posto sui pick-up, avvolgevano il capo nelle kefiah, accarezzavano le bombe a mano.
Immaginiamo questo: la musica ad altissimo volume che viene dall’altra parte, le risate li avviluppa, li afferra in tutta la sua acutezza lacerante, distruttiva. Ma loro si difendono sillabando preghiere in cui un dio promette loro vendetta, ricapitolano le fasi dell’operazione dove dovranno colpire senza pietà, senza fare distinzioni, pensano ai loro morti. I loro morti i soli che contano, non quelli dell’altra riva. un baratro che purtroppo si riempie metro dopo metro da metà del secolo scorso.
Attenzione: non sono i vecchi guerriglieri palestinesi con il loro stock di credenze disponibili e di sussulti identitari, nazionalismo comunismo. Sono i funzionari del jihad, cercano nella strage un lasciapassare per il cielo, bombe e mitra sono un kit per la resurrezione una volta compiuto il misfatto.
Mai, credo, la separazione tra l’Occidente della (finta, ristretta) globalizzazione della felicità e l’altro mondo, quello dell’esclusione e del kalashnikov, è stata così esemplarmente evidente. perché qui i due estremi si toccano in spazi ridottissimi. In quell’altro mondo non c’è solo Hamas perché è gonfio fino a scoppiare, questione palestinese, fanatismo religioso, segregazione urbana, fascinazione mediatica, miseria economica, degrado, l’umiliazione dell’escluso, anche a fame. A trascinar via gli ostaggi non erano solo gli uomini di Hamas, c’era gente comune a caccia del suo trofeo di un giorno memorabile, di un nemico da umiliare in diretta del telefonino. La musica e il kalashnikov: semplificazione che gli estremisti hanno imposto e che noi non abbiamo per pigrizia ipocrisia e viltà saputo contrastare. Non dite che non lo conosciamo quel mondo, ci assedia un po’ come Israele avvolge Gaza. Solo che ci separano distanze rassicuranti e narcotiche, sono immagini parole. Poi un sabato di ottobre dei miliziani con uniforme nere fanno cadere un muro…
I dotti Settanta che ad Alessandria d’Egitto hanno tradotto la parola ebraica Eden con il termine greco, ricalcato sull’iraniano, “paradeisa” ovvero giardino chiuso, sarebbero meravigliati della modernità di quella scelta linguistica.
Quirico che ritrova un po’ di dignità
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