(Stefano Rossi) – Quando la sinistra fa il gioco degli avversari.

Dopo il gen. Vannacci, il quale, senza spendere un soldo ha ricevuto la migliore e prolungata pubblicità che qualunque imprenditore vorrebbe ottenere per il suo prodotto, ecco un altro caso simile.

È bastato un bellissimo spot pubblicitario della “Esse” per trasformare, stucchevoli e inappropriati commenti, in una pubblicità inaspettata per la nota catena di supermercato di qualità.

Tra i commenti merita il premio niente meno che Aestetica Sovietica, gente che ci tiene a definirsi comunisti ma che sono molto attenti agli inganni pubblicitari. Ecco cosa scrivono: “Ma è il nuovo spot o un’enciclica contro il divorzio? La tossicità di questa narrazione consiste nel considerare come necessariamente drammatica una separazione che invece molto spesso coincide con una liberazione“.

Siccome al governo ci sono persone, quasi tutte divorziate o conviventi more uxorio, ma decisamente contrari al divorzio, lo spot è diventato terreno di scontro politico.

Sono bastate le parole della Meloni ad aprire i commenti: “Io lo trovo molto bello e toccante”.

E così arrivano i commenti di Bonelli, Fratoianni e Bersani tutti contrari non tanto allo spot in sé, bensì alla presa di posizione della Meloni: “Una volta che la Meloni smette di occuparsi di spot pubblicitari può occuparsi del caro vita che sta portando alla povertà sociale tante famiglie compresi figli” (Bonelli).

La Schlein non si è smentita. Per non offendere nessuno si è smarcata dicendo di non aver visto lo spot.

Io da anni appena parte la pubblicità cambio canale o azzero il volume ma dopo le polemiche sono andato a vedere in rete questo spot che mi è veramente piaciuto. La Schlein evidentemente non ha preso coscienza che esiste Internet.

Forse si deve far consigliare dalla sua armocromista.

Anche a destra non mancano i commenti del tutto fuori luogo: “Chi odia bambini e famiglia ovviamente si è infuriato” (Lucio Malan, capogruppo al Senato di FI).

E’ noto che il fondatore di Esselunga simpatizzava per Silvio Berlusconi e che al Nord molti fanno spesa alla Esse o alla Coop in base al proprio colore politico ma è chiaro che lo scontro è sul tema del divorzio.

Infatti, tra i commenti più pertinenti si cela la verità come quello di Raffaella Frullone, giornalista, ripresa da Tommaso Longobardi, collaboratore della Meloni: “Ci sono cose che non si possono dire, neanche lasciare intuire, meno che meno mostrare. Uno di questi è la speranza di un bambino di tornare a vedere i suoi genitori insieme. Un desiderio fisiologico, legittimo, ovvio, persino banale. Ma che non deve essere mostrato o raccontato perché tocca un dogma della società contemporanea, il divorzio”.

In tutta questa baraonda merita la chiosa finale Carlo Calenda che per una volta ha detto una cosa giusta: “Oggi la ruota della perdita di tempo della politica italiana si è fermata sulla casella spot. Cosa ci dice quello spot? Niente. Tranne che a Esselunga sanno davvero fare il loro lavoro. Siamo un branco di decerebrati e meritiamo l’estinzione”.

Poi ci sono quelli come Osho che con un meme ha messo fine a tutte le discussioni.

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Purtroppo, ancora una volta, devo constatare la totale pochezza e aridità dei commenti e l’assenza di persone di rilievo, una volta si chiamavano intellettuali, che potevano dare un contributo al dibattito per niente banale.

Erano gli anni settanta e due spot pubblicitari smossero la coscienza di un’intera nazione.

Tutti i giovani andavano con i jeans e i marchi più diffusi erano Levi’s, Wrangler, Wampum, Lee e Roy Rogers.

Un certo Maurizio Vitale si inventò il marchio “Jesus” e si rivolse ad un’agenzia pubblicitaria dove c’era un certo Emanuele Pirella che tirò fuori lo slogan “Non avrai altro jeans all’infuori di me”.

Pochi anni dopo, con il fotografo Oliviero Toscani, idearono uno degli spot che cambiarono per sempre l’indirizzo pubblicitario dissacrante e irriverente con questo slogan “Chi mi ama mi segua” e in primo piano il lato b della nota modella Donna Jordan, ripresa dal basso, che ha fatto sognare molte generazioni di quegli anni.

Due frasi riprese dalla Bibbia per vendere jeans, per giunta, con una donna succintamente vestita.

Successe il finimondo. Dall’Osservatore Romano a Pier Paolo Pasolini si scatenò l’inferno.

Ma servì molto e a tanti. Alla pubblicità, che dal quel momento, non poteva più rappresentare solo gli spot di Carosello e a un dibattito politico sulla religione e la società civile. Siamo nel 1973, da poco introdotto il divorzio ma da lì a poco arriverà la riforma del diritto di Famiglia e solo nel 1981 verrà abolito il delitto d’onore.  

Ma il film “Divorzio all’italiana” è del 1960! Come passa il tempo eppure la società sembrava fermarsi e mutare molto, molto lentamente.

Così oggi. Il divorzio fu introdotto nel 1970 dopo aspre battaglie eppure, nel 2023, gente divorziata, si sente paladina di un modello famigliare che appartiene agli anni settanta e si proclama anti divorzio!

Tutto questo non ha senso.

Riporto qui di seguito una parte dell’articolo scritto da un grande intellettuale solo per dimostrare la differenza del linguaggio, la profondità del pensiero, l’analisi perfetta di un fenomeno culturale. Oggi non potremmo leggere articoli come questi.

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Coloro che hanno prodotto questi jeans e li hanno lanciati nel mercato, usando, per lo slogan di prammatica uno dei dieci Comandamenti, dimostrano – probabilmente con una certa mancanza di senso di colpa, cioè con l’incoscienza di chi non si pone più certi problemi – di essere già oltre la soglia entro cui si dispone la nostra forma di vita e il nostro orizzonte mentale.

C’è, nel cinismo di questo slogan, un’intensità e una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a lungo in questi ultimi decenni (per un periodo più breve in Italia). Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, e già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e i nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione. Tale laicità è un «nuovo valore» nato nell’entropia borghese, in cui la religione sta deperendo come autorità e forma di potere, e sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile.

Ma l’interesse di questo slogan non è solo negativo, non rappresenta solo il modo nuovo in cui la Chiesa viene ridimensionata brutalmente a ciò che essa realmente ormai rappresenta: c’è in esso un interesse anche positivo, cioè la possibilità imprevista di ideologizzare, e quindi rendere espressivo, il linguaggio dello slogan e quindi, presumibilmente, quello dell’intero mondo tecnologico. Lo spirito blasfemo di questo slogan non si limita a una apodissi, a una pura osservazione che fissa la espressività in pura comunicatività. Esso è qualcosa di più che una trovata spregiudicata (il cui modello è l’anglosassone «Cristo super-star»): al contrario, esso si presta a un’interpretazione, che non può essere che infinita: esso conserva quindi nello slogan i caratteri ideologici e estetici della espressività. Vuol dire — forse — che anche il futuro che a noi — religiosi e umanisti — appare come fissazione e morte, sarà in un modo nuovo, storia; che l’esigenza di pura comunicatività della produzione sarà in qualche modo contraddetta. Infatti lo slogan di questi jeans non si limita a comunicarne la necessità del consumo, ma si presenta addirittura come la nemesi — sia pur incosciente — che punisce la Chiesa per il suo patto col diavolo”.

Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera del 17 maggio 1973