Siamo consapevoli che appena il lettore si imbatte in espressioni come “Strappo nel Pd”, “Pd, è crisi” etc. rischia la narcolessia istantanea, e anche per l’editorialista alle prese col Pd il più delle volte vale […]

(DI DANIELA RANIERI – ilfattoquotidiano.it) – Siamo consapevoli che appena il lettore si imbatte in espressioni come “Strappo nel Pd”, “Pd, è crisi” etc. rischia la narcolessia istantanea, e anche per l’editorialista alle prese col Pd il più delle volte vale la frase di Karl Kraus su Hitler: “Non mi viene in mente niente”.
Ma apprendiamo che Elly Schlein incontra Calenda per avanzare una proposta di legge per salvare la Sanità pubblica. Vedi tante volte la vita: avevamo lasciato Calenda che ridisegnava il mondo con Renzi sulla base della sua (di Renzi) Weltanschauung darwinista prestazionale, e lo troviamo a combattere per offrire cure agli indigenti.
Ora, siccome la Sanità è talmente allo sfascio che non esiste cittadino che non ne abbia fatto esperienza, giocoforza è entrata nell’agenda di questi miracolati parlamentari, che se vogliono prendere ancora qualche voto devono pur sposare qualche tema popolare, fino a ieri “populista” perché a promuoverlo era il M5S. È la stessa sorte toccata al Reddito di cittadinanza, abolito da Meloni e dal suo governo ferocemente neoliberista: quando fu varato, il Pd votò addirittura contro; al salario minimo, su cui i privilegiati di sinistra sono sempre stati contrari o tiepidini, non essendo tema da Zona a traffico limitato; al cambiamento climatico, improvvisamente tema caldo nel partito ferocemente sviluppista dello Sblocca Italia.
Colpisce oggi lo zelo con cui una schiera di dirigenti del Pd, quelli che durante la stagione renziana deglutivano tutto, danno consigli a Schlein, eletta segretaria proprio perché la maggioranza dei votanti alle primarie non ne voleva più sapere della vecchia classe dirigente inetta, screditata e compromessa con una stagione nefasta. Non passa giorno senza che questi sfollagente le spieghino cosa fare per battere Meloni; loro, che non riescono a vincere un’elezione da anni (a parte il 40,8% alle Europee comprato da Renzi con gli 80 euro) eppure sono stati in tutti i governi fino a ieri.
Questi “riformisti” del Pd (in realtà renziani dormienti pronti ad accoltellare alle spalle, come da specialità del fondatore) invitano Schlein a non essere “troppo radicale”, considerato anche che 30 dem liguri se ne sono andati con Calenda. Graziano Delrio, che nel 2018 ancora elogiava il lanciafiamme minacciato da Renzi contro la minoranza (“Non mi piace l’immagine, ma è vero che il Pd deve cercare il rinnovamento della propria classe dirigente”), dice a Rep che sente un “disagio” crescente verso Schlein, la quale “si deve fare aiutare” per “costruire una proposta vincente che allarga, non minoritaria”. Adesso la minoranza “riformista” va ascoltata, non bruciata viva; vessare i lavoratori e ignorare i poveracci è una “diversa sensibilità”. “Non è che i precedenti dirigenti del Pd agivano per rendere precari i diritti o il lavoro”, dice. Eppure il Jobs Act, l’obbrobrio di Renzi su cui Schlein vorrebbe fare un referendum su proposta di Landini, era programmaticamente una mascalzonata contro i lavoratori (e ci è costato 20 miliardi).
Ma per i “riformisti” il massimalismo della segretaria è visibile anche sulle armi all’Ucraina. Per quanto lei sia timida sul tema, non le perdonano di non essere una fanatica atlantista, una degli assatanati di guerra che furoreggiano sui social con la claque dei giornalisti d’élite.
E sulla Sanità, che improvvisamente gli sta a cuore (senza penalizzare i privati, ci mancherebbe): li avete mai sentiti denunciare il disastro degli ospedali? No, perché godono di assistenza sanitaria integrativa estesa anche ai famigliari. Li avete mai visti piangere sui giornali per il fatto che tra il 2010 e il 2019 tra tagli e definanziamenti sono stati sottratti 37 miliardi al Sistema sanitario nazionale? No, perché il governo che, d’accordo con le Regioni, ha danneggiato di più il Ssn sotto il nome truffaldino di “Patto per la Salute”, tagliando 16,6 miliardi promessi e mai erogati, è stato il governo Renzi, e non uno dei suoi lacchè si dissociò dalla criminale operazione.
Li avete sentiti insorgere per il fatto che l’“Autonomia differenziata” tratta la Sanità come una materia ordinaria, insieme al commercio e alla gestione del territorio, tra le materie di esclusiva competenza delle Regioni, contro il dettato della Costituzione per cui la salute è fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività? O per il fatto che i Lea, i livelli essenziali di assistenza, in 22 anni dalla riforma del Titolo V (fatta dal centrosinistra) non sono stati stabiliti e non esiste uno strumento per verificare la loro effettiva applicazione? No, perché Bonaccini è uno dei “governatori” più a favore della secessione.
Ora questi falliti della politica friggono sulle sedie perché Schlein dice cose di minimo buon senso in linea con la Costituzione, ergo è una massimalista radicale e dovrebbe spingersi un po’ più verso destra, come hanno fatto loro, beninteso restando nel Pd: mica sono matti a entrare in un partito che ha il 2%.
Il programma della pasionaria di Pro Migrè, Elly Schlein, si può riassumere così: gay, migranti e bella ciao! Chi non concorda con la svolta movimentista populista surrealista della pasionaria del progressismo bigotto dei radical-chic delle ZTL prima o poi se ne andrà dal PD.
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La Schlein farebbe già una gran cosa liberandosi di tutti i dirigenti delle gestioni precedenti che ancora infestano il partito. Questa dovrebbe essere la sua priorità. Un paio di giorni fa ho sentito Bersani a 8½ dire che, anche lui è stufo del politically correct e che sarebbe ora di abbandonare tale pratica e cominciare a farsi sentire. Non è una rivoluzione ma quasi.
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La Schlein farebbe già una gran cosa liberandosi di tutti i dirigenti delle gestioni precedenti che ancora infestano il partito. Questa dovrebbe essere la sua priorità. Un paio di giorni fa ho sentito Bersani a 8½ dire che, anche lui è stufo del politically correct e che sarebbe ora di abbandonare tale pratica e cominciare a farsi sentire. Non è una rivoluzione ma quasi.
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** Articolo di Fabio Salamida, opinionista di Today
Nel Partito Democratico “c’è un disagio che sarebbe sbagliato ignorare”. Sono le parole di Lorenzo Guerini, ex Ministro della Difesa e capo di una delle innumerevoli correnti del cartello politico più tafazziano del globo terracqueo: quei gruppi organizzati specializzati nell’impallinare il segretario o la segretaria di turno. Gruppi che rivendicano il loro diritto di esistere in virtù di un pluralismo di idee che in realtà non esiste, perché di fatto l’unica idea che li caratterizza tutti e indistintamente potrebbe essere sintetizzata nella domanda “quanti posti mi spettano?”.
Un partito di generali senza esercito
E così, dopo Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi, Zingaretti (tra loro c’è stato Martina, ma era solo un reggente) e Letta, il nuovo bersaglio da abbattere è Elly Schlein. Per rendere l’idea del costante psicodramma, basta ricordare che da quando Matteo Salvini è saldamente alla guida della Lega (con risultati non sempre esaltanti…), il Pd ha cambiato ben sei segretari; cinque da quando Giorgia Meloni è la leader indiscussa di Fratelli D’Italia. Prima segretaria donna, eletta appena sei mesi fa, Schlein ha dovuto far subito i conti con il fuoco amico, subendo attacchi più o meno velati da più parti. A rendere ancor più complicata la sua permanenza al secondo piano del Nazareno, un fattore politico e uno culturale.
Quello politico è il suo essere un corpo estraneo: uscita nel 2015, in piena sbornia renziana, è rientrata da candidata alla segreteria ribaltando alle primarie il risultato del voto dei circoli, quelle sedi ridotte ormai da tempo a comitati elettorali dei vari “capetti” sparsi sui territori dalle correnti. Quello culturale sembra un paradosso, visto il posizionamento politico del Pd: è una donna relativamente giovane e si ritrova a dover gestire una pletora di generali senza esercito che nel loro intimo non hanno idee così tanto diverse da un altro generale salito agli onori delle cronache nelle ultime settimane. La generazione che non prova vergogna a sventolare il cedolino da parlamentare nell’aula di Montecitorio sostenendo che “non è certo uno stipendio d’oro” mal sopporta i giovani e fatica a vedere una politica donna che non sia una “quota rosa” a cui offrire un caffè in buvette.
Un passato inglorioso
Eppure i “vecchi” non possono vantare un glorioso passato da portare ad esempio. Un po’ di numeri: il Partito Democratico di Walter Veltroni esordisce nel 2008 e raccoglie 12 milioni di voti; nel 2013 il segretario è Pierluigi Bersani e i voti sono 8,6 milioni, un crollo di 3,4 milioni rispetto a cinque anni prima. Come spiegò Nicola Maggini del CISE nella sua relazione, oltre all’avvento del Movimento 5 Stelle a causare i netti cali del partito del Nazareno e del Pdl, all’epoca suo principale competitor, fu la diminuzione della partecipazione elettorale, che calò di circa cinque punti percentuali (dall’80,5% al 75,2%). Tradotto in numeri assoluti, si recarono alle urne poco più di due milioni e seicentomila votanti in meno, ossia più del calo fisiologico della partecipazione dovuto all’avvicendamento generazionale, stimabile attorno a 2 punti percentuali di flessione. Insomma, i voti del Pd, sin dai suoi primi anni di vita, si dileguano nell’astensionismo perché i suoi stessi potenziali elettori non si sentono più rappresentati da quello che si caratterizza fin da subito come il partito del tutto e niente. Alle politiche del 2018 il Pd raccoglie appena 6,1 milioni, nel 2022 si ferma a 5,3 milioni. Una costante discesa non certo imputabile all’attuale segretaria e al suo gruppo dirigente, insomma.
Parole a caso
L’ultimo atto della costante guerriglia interna è stato l’uscita di 31, tra eletti e dirigenti, in quella Liguria che alle ultime tornate elettorali non ha certo collezionato trionfi; hanno trovato subito accoglienza in casa Calenda e accusano la loro ex segretaria di aver spostato l’asse troppo a sinistra, tradendo la fantomatica vocazione “riformista”. Sì, perché un’altra costante del lessico interno del Pd è l’utilizzo di parole a caso: un peccato originale che risiede già nel nome (…chi non è democratico in fondo?) e si declina nelle inascoltabili logorree dei vari esponenti. “Riformista” è una delle più gettonate e per ironia della sorte, o forse no, è anche il nome della testata attualmente diretta da Matteo Renzi. Su cosa dissenta la cosiddetta “ala riformista” aleggia un mistero paragonabile al futuro politico di Marta Fascina: di sicuro reclamano “agibilità politica” (posti, invitate in tv…), rappresentanza delle loro istanze nei gruppi dirigenti (posti…), condivisione delle scelte sulle candidature nazionali e locali (posti…). Nei loro documenti criticano “un regresso verso un antagonismo identitario” e vorrebbero un partito a “vocazione maggioritaria”, forse dimenticando di essere gli stessi che lo hanno reso un partito a vocazione minoritaria.
Così, mentre al Governo mancano le coperture per mezza manovra finanziaria, gli sbarchi record smentiscono anni di propaganda becera sulla pelle di migliaia di disperati, il cambiamento climatico mette a dura prova le fragilità del Paese, i prezzi volano e l’economia rallenta, le bande di marziani disadattati che popolano quello che dovrebbe essere il principale partito di opposizione organizzano l’ennesima faida interna per cacciare l’ennesimo segretario. In fondo Lorenzo Guerini dice il vero, nel Pd c’è un disagio che sarebbe sbagliato ignorare.
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Se penso che la Schlein crede di potersene liberare mandandoli in Europa allora vuol dire che non li ha del tutto individuati,
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Un “brava” a Daniela Ranieri.
Finalmente si comincia a dire la verità sul PD di D’Alema (il Titolo V) su qualcosa dei renziani, e di tutti coloro che vogliono consigliare il da farsi alla Schlein, dopo aver governato con il logo del PD ma con la casacca nascosta di Italia Viva (vedi Guerini), ecc.
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