Il leader brasiliano avrà la presidenza del G20 e vuole lo Zar al vertice di Rio de Janeiro. Il ministro degli esteri russo: «Un altro mattone nel nuovo ordine mondiale»

Lula invita Putin: “No all’arresto”. Lavrov esulta per il “successo” al G20

(DOMENICO QUIRICO – lastampa.it) – D’accordo, arranchiamo in un tempo di disordine. Ma almeno le buone maniere, il mirabile “savoir faire” dei diplomatici! Non si è ancora asciugato l’inchiostro dei venti Grandi, Medi e Piccoli sul sudatissimo documento finale, i leader hanno ancora al collo appassite ghirlande di fiori, il piede sulla scaletta dell’aereo e «i significativi passi avanti» del sommo aeropago indico diventano un fragoroso, stonato passo indietro. Bisogna rincalzare il copione lindo e pulito, la finta letizia del tutto benissimo. Già. Lo sgarbato presidente brasiliano Lula annuncia che al prossimo Supervertice planetario, che sarà a rotazione affar suo, Putin il criminale, il reprobo, il nemico della pace ci sarà. Lo invita lui e con un anno di anticipo. Per far capire che le dissolvenze e gli equilibrismi lessicali il problema vero non l’anno risolto se non coprendoli di gesuitici nulla. Gli astronomici accordi economici, le vie, le autostrade delle palanche, le riverenze, gli inviti, i summetti bilaterali sono teatro.

È attorno alla guerra in Ucraina, dove al contrario che in Siddharta non si muore vicino a fiumi allegorici ma in concretissime stragi taciturne, che si gioca il confronto tra i tre imperi, Stati Uniti Russia e Cina. E per metter ordine al mondo e evitare ulteriori macelli è un G Tre che ci vorrebbe e non questo teatrino di ombre cinesi. Nella sua attuale impossibilità è alle medie potenze che queste adunate offrono pianure fertili per far commercio con un blocco e con l’altro, giocare a profittevole rimpiattino tra il vecchio padrone e quelli che aspirano a diventarlo, a metterli gli uni contro gli altri, a illuderli su fedeltà molto temporanee. Questa dialettica dell’astuzia di India, Brasile, Sudafrica è il vero risultato del G 20 indiano, è servita alla sua messa a punto, come nella commedia goldoniana la locandiera strema tutti i pretendenti facendo intravedere il sospirato sì e poi agisce – finalmente! -, pensando solo al proprio interesse. Sono loro gli unici vincitori a Delhi perché sono riusciti a far emergere l’epoca dell’equilibrio dell’impotenza, dove possono essere liberi.

Diciamoci la verità. Il G20 di una volta, dei tempi d’oro del monopolio americano, assomigliava a quei vertici che l’impero britannico, la globalizzazione di fine Ottocento, organizzava per il genetliaco della regina Vittoria. Venivano gentilmente invitati dai quattro angoli del mondo i buoni sudditi: il sontuoso maraja indiano, il misterioso emiro arabico, il robusto pecoraio australiano, il re del Buganda, il pellerossa canadese. Tutti sfilavano nei loro pittoreschi costumi davanti alla sovrana paziente e benevola come una nonna, le porgevano i doni e poi tornavano a casa soddisfatti, riconoscenti. E con gli ordini imperiali in tasca.

Alla stessa maniera il foglio d’ordine economico e non solo era fissato giudiziosamente prima, al G sette, o G otto quando Putin era ancora un riverito Grande. L’allargamento fu un concessione dovuta anche al susseguirsi delle crisi economiche dalle nostre parti. Opportuno dunque concedere agli Stati proletari del Terzo Mondo o almeno ai più presentabili, meno stracciati e più utili, una festicciola periodica che ne placasse le orgogliose insofferenze e soprattutto desse loro lena a cooperare ancor di più, sgobbando per il nostro riverito benessere. Sono popoli che hanno la propria identità e propri traumi, anzi i traumi sono i caratteri della identità. Chi ha mai pensato di invitare il Bangladesh o la Bolivia al G20? Eppure avrebbero molto da dire sulla cooperazione economica internazionale più di una petromonarchia fanatica o dei bancarottieri populisti argentini. L’importante è che continuino a svolgere il compito che è loro assegnato nell’ordine mondiale post 1989, quello di fornitori, produttori a basso costo e clienti, trasmettendo le direttive anche agli altri, ai più derelitti.

Da un paio di edizioni questo G Venti, più o meno fossilizzato nella presunta perfezione dell’economia di mercato globale, annaspa. La guerra come sempre semplifica e chiarisce: il confortante grandangolo finale dei protagonisti schierati su due file che siglava l’happy end, di fronte a tutti questi sottintesi, livori, trabocchetti, adesso fa sgomento. Ora bisogna schierarsi: con chi fate gruppo, con l’America o con i due aspiranti regicidi dell’Occidente, Russia e Cina?

Ritirandosi sveltamente dalle terre sommerse della retorica della cooperazione il disordine lascia un sale sterilizzante che ostacolerà ancora per molto tempo ogni raccolto di equilibrio. Noi facciamo come al solito, sostituiamo freneticamente una pedina all’altra nei nostri entusiasmi: liquidati i russi, diventati i fino a ieri simpatici comu-capitalisti cinesi il pericolo pubblico numero uno, è il momento degli indiani con cui firmiamo qualsiasi cosa. Noi viviamo in una specie di tradimento cronico.

Per sintetizzare: se c’è qualcosa che il G venti di Delhi ha dimostrato è la sua assoluta inutilità perfino nel contarsi. Sopravvivenza sgangherata di una epoca che la guerra in Europa ha sepolto e che serve solo ma con bugie e accomodamenti acrobatici alle necessità interne dei partecipanti. Da Biden a Meloni a Lavrov tutti tornano a casa sventolando di aver strappato “il massimo possibile”, dalla lotta al riscaldamento climatico al silenzio sulla guerra, perfino un selfie per un bilaterale è già un trionfo.

A Zelensky viene qualche opportuno sospetto: la proclamazione universale della obbligatorietà della vittoria totale contro i russi fino all’ultimo centimetro a Delhi è stata barattata disinvoltamente per un pezzo di carta finale con tutte le firme.

L’unico che non mente è Narendra Modi che ha accumulato munizioni per vincere le elezioni del prossimo anno. In cui potrà gettare dentro tutto, lo sbarco sulla luna, il trionfo al G Venti e al suo contrario i Brics, non aver stretto la mano al detestato cinese complice nel mettere in disordine il mondo ma fino a un certo punto, di aver fatto da padrone di casa al mondo. Lui continuerà a fare affari con tutti, Cina Usa Russia Europa, il balletto disinvolto e permanente di una specie di Erdogan indù ma con ambizioni ancor più esagerate, forse fondate.

Una immagine simbolo di questo teatro degli inganni? Il premier indiano in elegantissimo dhoti che guida gli ospiti nel pellegrinaggio al santo Gandhi: l’erede politico dell’estremismo nazionalista indù che sfrutta come simbolo il Mahatma che fu assassinato proprio dal fanatismo indù e fu un nemico tenace e vittorioso dell’imperialismo anglosassone.