Il discrimine fra destra e sinistra passa attraverso la diversa concezione delle istituzioni, del loro ruolo nella vita collettiva

Il generale Roberto Vannacci

(di Michele Ainis – repubblica.it) – Lunga vita al generale Vannacci. Giacché il suo vendutissimo pamphlet (che invidia) ha avuto se non altro il merito di farci riscoprire le nostre perdute identità, la differenza culturale fra destra e sinistra. Che ancora dura, nonostante il tramonto delle ideologie novecentesche.

E che non sta soltanto nel diverso atteggiamento verso gli immigrati e i gay, o nell’opposta sensibilità sulla crisi climatica. Dopotutto, molti gay votano a destra, molti sindaci di sinistra reclamano uno stop all’immigrazione incontrollata, un ministro del governo di destra piange dinanzi all’eco-ansia d’una studentessa.

No, al fondo c’è una questione più importante, più essenziale, che investe il rapporto fra libertà e potere, lo spazio dell’individuo e quello dello Stato.

La libertà, anzitutto. Di scrivere e parlare, d’esprimere le proprie idee senza il rischio di castighi o di censure. Non è forse il primo mattone della democrazia, la sua “pietra angolare”, come disse negli anni Sessanta la Consulta? E quali convincimenti tutela questa libertà?

Non certo l’opinione della maggioranza, di chi canta nel coro: le idee conformi al pensiero dominante si proteggono da sé, non hanno bisogno di giudici e gendarmi per venire propagate.

Sono piuttosto le opinioni radicali, o al limite farneticanti o ripugnanti, l’oggetto della garanzia scolpita nell’articolo 21 della Costituzione. Anche perché — diceva John Stuart Mill, grande teorico del pensiero liberale — s’impara di più dalla rappresentazione dell’errore che da tanti bei sermoni.

Difatti la parola omofoba o razzista, la dottrina intollerante, e perfino l’apologia dei regimi autoritari, ci mettono a confronto con il male, ci insegnano a riconoscerlo, a combatterlo, rafforzando loro malgrado la democrazia.

Dunque permetterne la circolazione è utile per la società nel suo complesso, oltre a rappresentare un diritto inviolabile per ciascun individuo.

Questa concezione estrema della libertà di manifestazione del pensiero è la trincea scavata dalla destra per difendere Vannacci. Una difesa nobile, come il valore cui si riferisce.

D’altronde l’unico limite alla libertà di parola comunemente accettato — l’istigazione a delinquere — non viene infranto nel caso di specie, dato che nel libro il generale si dissocia espressamente da ogni azione delittuosa commessa sulla scia delle sue espressioni d’odio.

Ma alla celebrazione della libertà la sinistra oppone l’argomento del potere. Quando parla Mattarella, parla lo Stato; e come lui chiunque sia investito di funzioni pubbliche apicali. Si chiama, infatti, “potere di esternazione”.

Non un diritto, non una libertà; bensì un potere che deriva dalla carica indossata, che moltiplica la forza d’ogni parola detta o scritta, che ne riversa la responsabilità sulle stesse istituzioni, e che perciò deve assoggettarsi a limiti più acuti e più stringenti di quelli validi per i cittadini comuni.

Non a caso l’articolo 54 della Costituzione reclama “disciplina e onore” nell’esercizio delle pubbliche funzioni. E non a caso il codice dell’ordinamento militare — che vincola il generale Vannacci — vieta ogni attività politica ai membri dell’esercito.

Sicché in ultimo il discrimine fra destra e sinistra passa attraverso la diversa concezione dello Stato, del suo ruolo nella vita collettiva. Prima l’individuo, per la destra; prima lo Stato, per la sinistra.

Ma il nostro Stato è impopolare fin dai tempi di Silvio Spaventa, che già nel 1879 ne lamentava la complessione debole, l’arretratezza, l’inefficienza dell’apparato burocratico. Gli italiani lo sanno, e infatti quasi nessuno se ne fida.

Lo sa pure la destra, che coniuga un nazionalismo senza Stato (meno tasse, meno limitazioni, meno controlli) alla licenza per ogni comportamento individuale.

La sinistra, viceversa, conduce le sue battaglie di principio, che sulla questione aperta dal libro di Vannacci e in varie altre vicende finiscono per identificarla con il potere, con lo Stato. Non sarà un caso se la prima governa, la seconda viene governata.