La cucina popolare italiana costituisce un patrimonio secolare. Una volta effetto della scarsità di risorse. Oggi un capitale da spendere per il futuro

(di Marino Niola – repubblica.it) – In Italia «spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi». Lo ha detto il ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, al Meeting di Rimini, scatenando un mare di polemiche. In realtà, l’affermazione è vera. A patto, però, di intendersi su cosa significhi oggi povertà e su cosa significhi mangiare bene.

Intanto, bisogna distinguere tra i poveri delle aree urbane, dei quartieri degradati, delle periferie dimenticate. E quelli della grande provincia italiana, dove i redditi sono bassi, ma sono ancora vive tradizioni e mentalità, usi e consumi ereditati dal mondo contadino. In queste aree anche i meno abbienti mangiano «spesso» meglio dei ricchi di altre zone.

Di fatto i poveri non sono tutti eguali, né lo sono allo stesso modo. Una cosa è l’indigenza creativa dell’Italia tradizionale, la sobrietà pur forzata delle cucine popolari, la frugalità contadina.

Altro è la povertà assoluta e senza conforto dei margini metropolitani, italiani e, ancor più, stranieri. Dove i cittadini poveri e non solo si alimentano di cibi di cattiva qualità e low cost. Scadenti e spesso scaduti. Ingozzati come oche dall’industria del junk food, come nel caso degli Stati Uniti d’America.

Di fatto la categoria dei poveri è necessariamente un’astrazione. Nella realtà ci sono diverse forme e gradi di povertà. Perciò il temine va declinato secondo variabili non solo reddituali, ma soprattutto territoriali, sociali, culturali, valoriali.

È sicuramente peggio essere indigenti a Milano, e ancor più a New York e a Londra, che nelle vallate alpine, nelle campagne pugliesi e perfino nelle cittadine della piccola grande Italia.

Esiste, infatti, una sorta di autonomia differenziata dell’alimentazione. Micro culture alimentari che hanno resistito alle sirene del boom economico e sono oggi praticate da chi coltiva gli orti, acquista prodotti locali, cucina quotidianamente. Un patrimonio di pratiche alimentari e di valori gastronomici che rende il Belpaese un caso eccezionale nel panorama europeo.

Era quel che sostenevano già negli anni Sessanta i grandi scienziati americani Ancel Keys e Margaret Haney, scopritori e massimi teorici della dieta mediterranea. Che proposero al mondo intero il modello alimentare italiano, e poi anche greco e spagnolo, come stile di vita in grado di distribuire piacere e salute in maniera democratica. Basato sulla cucina tradizionale, sulle economie di piccola scala, sulla stagionalità, sulle produzioni locali, sul riciclo. Allora era vero per tutta Italia. Oggi solo per una parte, sia pur significativa della popolazione.

E qui entra in gioco il secondo termine usato dal ministro: «mangiare bene». Partiamo dal presupposto che mangia meglio chi pranza con un piatto di pasta e fagioli con olio extravergine d’oliva, rispetto a chi sceglie hamburger e patate fritte. (Il che non significa che si debbano assumere atteggiamenti talebani e lanciare fatwe contro la polpetta di carne, soprattutto se fatta bene). Lo stesso vale per piatti geniali come le zuppe di pesce, le frittate di verdura, le ribollite, le parmigiane, le lasagne, i risotti, il quinto quarto. L’universo della pasta e il cosmorama della pizza.

Ce lo dicono concordemente la scienza della nutrizione, l’ecologia, l’economia e la storia della gastronomia. Perché la cucina popolare italiana in realtà costituisce un patrimonio secolare che ha pochi eguali al mondo. Una volta effetto della scarsità di risorse. Oggi rivalutato come un capitale da spendere per il futuro. Un sapere diffuso e interclassista in grado di conciliare le ragioni del gusto, della salute e della tasca. Un modo democratico di stare a tavola.