L’AMAZZONIA E IL DOPPIO VOLTO DEL BRASILE – Un Paese tra miseria e ricchezza. La “piccola Detroit” è un cumulo di macerie, chi è rimasto vive di agricoltura e legna. La città sui fiumi invece è lo snodo del narcotraffico

(DI ALESSANDRO DI BATTISTA – ilfattoquotidiano.it) – “Non andiamo in Amazzonia per fare soldi, ma per aiutare a sviluppare quella terra meravigliosa e fertile”. Lo disse Henry Ford, il fondatore di una delle case automobilistiche più famose al mondo, nel 1928 quando annunciò la nascita di Fordlândia, città industriale nel cuore dell’Amazzonia brasiliana. Che tenesse allo sviluppo della regione e alle condizioni dei lavoratori brasiliani è probabile. D’altronde in Michigan i suoi operai ricevevano retribuzioni ampiamente superiori alla media dell’epoca. Ford riteneva che se pagati adeguatamente i lavoratori sarebbero potuti diventare acquirenti delle automobili che producevano. Così avvenne del resto. Certo, benché più illuminato di molti altri industriali, era pur sempre un capitalista interessato al profitto. Anche per questo decise di costruire una cittadina in stile americano nella giungla brasiliana intorno alle fabbriche dove lavorare il caucciù ottenuto dalle piantagioni degli alberi della gomma. La Ford Motor Company aveva bisogno di fonti dirette di lattice per poter produrre gli pneumatici e Henry Ford voleva rompere il monopolio che la Gran Bretagna aveva ottenuto grazie alla produzione del caucciù, l’oro bianco, in Malesia e Sri Lanka. A Fordlândia arrivarono macchinari, prefabbricati, una grande torre idrica, tecnici, agronomi e medici. A Fordlândia vennero costruite case con veranda identiche a quelle delle zone residenziali di Detroit, e poi un ospedale, due scuole e un cinema. A Fordlândia vennero piantate migliaia di alberi da gomma ma la produzione non decollò mai. Gli alberi forse perché troppo ravvicinati l’uno con l’altro vennero attaccati da funghi e parassiti. Dopo quasi un ventennio di tentativi falliti e di fiumi di denaro perduto Ford, ormai anziano e malato, lasciò il controllo dell’azienda a suo nipote Henry Ford II il quale decise di finirla una volta per tutte con Fordlândia.

Fordlândia esiste ancora e le fabbriche abbandonate sono tutt’oggi piene degli stessi macchinari made in Usa arrivati negli anni 30. Le scale della torre idrica sono arrugginite e l’ospedale è ormai un cumulo di macerie. Nella “Villa Americana”, il quartiere dove abitavano i dirigenti ci vivono alcune famiglie brasiliane. La chiusura delle fabbriche non ha spinto tutti gli abitanti di Fordlândia a lasciare la città. Oggi circa mille persone vivono qui. C’è chi si dedica alla pesca, chi all’agricoltura, chi alla produzione di legname. C’è chi gestisce una pousada che accoglie i pochissimi stranieri che da Santarém, una delle più grandi città dello Stato del Parà, risalgono il Tapajós, affluente di destra del Rio delle Amazzoni e arrivano a Fordlândia. In fondo qui, isolati dalla cosiddetta civiltà, si vive meglio che nelle grandi città del Stato.

“Poveri contro poveri, come sempre: la povertà è una coperta troppo corta, e ognuno la tira dalla sua parte”, scrisse Eduardo Galeano.

Belém è la capitale del Pará. Con i suoi 1,4 milioni di abitanti è l’undicesima città brasiliana per numero di abitanti. Belém si affaccia sul fiume Guamá che, a sua volta, si tuffa nel Rio Parà, un immenso corso d’acqua formato da decine di altri fiumi e canali naturali collegato alla foce del Rio delle Amazzoni.

Fu Amerigo Vespucci il primo navigatore europeo che esplorò la foce del sistema fluviale amazzonico. Vi arrivò all’inizio del 1500 durante il primo dei viaggi andalusi. In una lettera inviata al banchiere fiorentino Lorenzo di Pier Francesco de Medici, cugino di Lorenzo il Magnifico, Vespucci raccontò di aver avvistato due grandi fiumi. I due fiumi, probabilmente, erano proprio il Rio delle Amazzoni e il Parà. Vespucci, come si legge nella lettera, navigò “a forza di remi, per due giorni, risalendo la corrente circa diciotto leghe” su uno dei due fiumi trovando traccia di insediamenti umani. Un secolo dopo i portoghesi fondarono Belém, la prima città sui fiumi amazzonici. Anche a Belém, come a Salvador e Ouro Preto, vennero deportati migliaia di schiavi dai possedimenti coloniali portoghesi in Africa occidentale. Fu una strage. Un numero impressionante di indios e africani morirono di stenti in Amazzonia.

All’inizio del secolo scorso, Belém visse i suoi anni d’oro grazie alla febbre del caucciù. Dall’Europa e dagli Stati Uniti arrivarono centinaia di imprenditori con denaro fresco da investire. Arrivò il tram, l’elettricità e per alcuni anni il porto di Belém fu il più importante dell’America Latina. Il boom finì presto e via via Belém si trasformò nella classica città brasiliana decadente, iniqua e oggi piuttosto pericolosa. Dai fiumi amazzonici non scendono più navi cariche di gomma naturale pronte a salpare per il Vecchio continente. In cambio arriva la droga. Il Rio delle Amazzoni è una delle vie principali della droga in Sud America. La cocaina e i suoi tremendi derivati a basso costo arrivano a Belém dal Perù, dall’Ecuador, dalla Bolivia e dalla Colombia. I trafficanti utilizzano gli affluenti di origine andina del Rio delle Amazzoni: il Napo, il Putumayo, il Madeira. Una parte della coca di qualità che arriva in città viene esportata all’estero o serve a soddisfare la domanda delle metropoli più ricche del Paese, da Rio a Porto Alegre passando per passando San Paolo. Gli scarti finiscono nelle favelas. In rua Ladeira do Castelo, proprio accanto al forte che i portoghesi costruirono per proteggere la città dalle incursioni francesi e olandesi, centinaia di derelitti si riuniscono per fumare l’oxi, un terribile miscuglio di lixo de cocaina con sostanze chimiche facilmente reperibili come benzina, cherosene o solventi. Un mix che per qualche ora cancella fame e depressione e che poi ti brucia il cervello. È difficile trovare un Paese dove gli squilibri sociali ed economici sono così evidenti quanto in Brasile. Basta girare un angolo per vedere l’opulenza trasformarsi nella miseria più inaccettabile. Il Brasile è un grande Paese, un Paese industrializzato, un Paese in crescita, un Paese abitato da un popolo entusiasta e colmo di speranza. Un Paese che ha conosciuto colpi di Stato e dittature militari avallate dalla Casa Bianca, che è stato travolto da uno sviluppo che ha lasciato dietro di sé macerie e cadaveri, un Paese che oggi, con il ritorno di Lula alla presidenza, tenta faticosamente e non senza forti resistenze interne, la costruzione di un nuovo multipolarismo che possa consentirgli di affrontare quegli squilibri sociali che anche Ford sognava quantomeno di ridurre nel cuore della foresta più importante al mondo. Speriamo che l’esito sarà diverso.