Arrestati a Napoli 19 anni dopo altri due killer della ragazza. La sua storia appare nel nono episodio intitolato della serie Gomorra intitolato «Gelsomina Verde».

(di Roberto Saviano – corriere.it) – Quando mi chiamano per avvertirmi che hanno arrestato due camorristi del gruppo che uccise Gelsomina Verde rispondo che non è possibile. Dico che è una storia troppo vecchia, che di certo si stanno sbagliando perché sono passati quasi vent’anni. E invece è tutto vero: sono stati arrestati Luigi De Lucia e O’Vikingo, Pasquale Rinaldi. Da tempo si sapeva del loro ruolo nell’omicidio, quei nomi erano emersi dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ma soltanto ora si è riusciti a trovare l’impegno, la volontà e l’operatività per poterli fermare. L’omicidio di Mina Verde mi torna tutto in corpo non come un rigurgito ma come un ricordo che sono stato costretto — per troppe volte — a ripercorrere.
Quella scena indimenticabile
Era il 2004 e giravo con la mia vespa nera nei territori della faida di Scampia . Avevo 25 anni, ci si muoveva all’epoca da un luogo di un omicidio all’altro. Arrivò un passaparola. Fu segnalato un omicidio vicino a una masseria che ora ricordo disabitata, ma potrebbe essere semplicemente che i proprietari si fossero rinchiusi dentro. Cose che accadevano spesso. Arrivai che già c’era la scientifica, la scena era recintata dal nastro segnaletico bicolore. Non ricordo vigili del fuoco, le fiamme forse si erano spente da sole o forse i pompieri erano arrivati prima del nostro arrivo. Ricordo che il muso dell’auto conservava ancora la vernice rossa. Era un’utilitaria, forse una Seicento nuovo modello, tutta mangiata dalle fiamme. Poi nel sedile posteriore lato passeggiero c’era questo corpo completamente carbonizzato. Era stato messo in un sacco e dato alle fiamme insieme all’auto.
I segni della tortura e i tre proiettili
In questura ore dopo fu detto ai cronisti che quei resti non erano di un camorrista ma erano di una donna. Si chiamava Gelsomina Verde, aveva 22 anni. Cadde il silenzio quando iniziò a girare il suo nome. La faida era arrivata anche a questo. Il referto necroscopico dei medici legali parò di segni di tortura e tre proiettili sparati alla testa. Gelsomina Verde era un’operaia che lavorava in una delle fabbriche di pelletteria dell’area nord. Mina — come tutti la chiamavano — faceva anche volontariato. Era volontaria sia in un doposcuola per i bambini che in carcere. È proprio qui che conosce Pietro Esposito detto Kojak . È lui ad adescarla. Le dice che devono parlare, le lascia intendere probabilmente che è qualcosa di importante che riguarda la sua famiglia.
La ricerca di «O’Sarracino»
Lei arriva con la sua Seicento, Kojak la affianca (anche lui in macchina) e mentre le sta parlando per prendere tempo arrivano secondo quanto lui stesso ha raccontato «Ugo De Lucia , Pasquale Rinaldi e Luigi De Lucia». I tre scendono da un motorino e le dicono con fare perentorio di spostarsi dal posto di guida. Cosa vogliono da Mina? Cosa vuole questa paranza di fuoco al servizio di Cosimino, che si presenta in gruppo da una ragazzina inerme? Vogliono informazioni su O’Sarracino, un ragazzo che lei ha frequentato tempo prima. Questo ragazzo, al secolo Gennaro Notturno, è il killer più temuto degli spagnoli. Devono scovarlo, devono trovarlo, devono identificarlo, ha ucciso — secondo quando loro sostengono — loro amici, continua a colpire, va fermato. Mina l’ha frequentato molto prima che si trasformasse in un killer.
Un killer temuto
Ma cosa lo rende così temuto O’Sarracino? È che non conoscono la sua faccia. Non hanno fotografie. Non riescono a entrargli in casa, il quartiere dove vive è blindato ai Di Lauro. I clan quando hanno necessità di identificare qualche loro nemico cercano una foto, oggi setacciano i profili social e se non trovano nulla provano a fare un’inchiesta che coinvolge parenti e amici. La diffusione di foto sui telefoni ha reso tutto più facile, ma nel 2004 si usava ancora la pratica degli anni 60 e 70, si andava in comune e si cercava la carta d’identità depositata. In questo caso gli uomini del clan non riescono a trovare niente, negli archivi il loro contatto non trova nulla. Altre volte si va dai fotografi di comunione o matrimoni, che hanno in archivio vecchie foto ma non trovano abbastanza informazioni su Notturno per battere questa strada. Così trovano Mina che l’aveva frequentato, trovano una ex fidanzata e chiedono a lei delle fotografie.
Le paure di Mina
Temono O’Sarracino perché è un killer puntuale, preciso, veloce, prudente e sa essere invisibile. Cosimo è convinto che abbia ucciso il suo migliore amico Fulvio Montanino. Vuole a tuti i costi identificare Notturno. Mina non ha foto. Non solo, non le vuole nemmeno cercare, non vuole collaborando in qualsiasi modo mettersi nelle dinamiche della faida. Sa che una volta entrata in queste sintassi a pagare sono tutti: ogni tuo parente può essere usato come sacco di carne per la vendetta o per inviare un messaggio.
Il martirio di una innocente
Non c’entra e non vuole ci vuole entrare. Anche solo una parola condannerebbe a morte i suoi familiari, i suoi amici, ogni persona che ha un rapporto con lei. In più non ha più contatti con O’Sarracino da tempo. Da molto tempo. E così la pestano, le rompono il naso, le torturano i lobi delle orecchie, la gonfiano di botte e — prima di spararle e bruciarla — altro ancora su cui dovrei soffermarmi ma non riesco. L’incubo della morte di Mina non smetterà mai di tormentarmi.
Certi esseri umani sono peggio degli orchi di tolkeniana memoria.
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