Gli attentati rivelarono il vero volto del nostro Paese dopo decenni di connivenze e affari con Cosa nostra. Ma la ricerca di chi sono i mandanti occulti non è mai partita davvero

Via D’Amelio senza verità

(ROBERTO SAVIANO – lastampa.it) – Pubblichiamo un estratto dall’episodio extra, «Quello che non sapremo» (disponibile da oggi su Audible.it), del podcast Audible Original «Chi chiamerò a difendermi. Giovanni Falcone, la vita» scritto da Roberto Saviano in collaborazione con Stefano Piedimonte

Il fumo si dirada, il suono delle sirene si affievolisce, la polvere e il pietrisco si posano sull’asfalto. La vista è più chiara. Ed è terribile. Questa natura morta di carcasse d’auto e corpi straziati è ciò in cui l’Italia si è trasformata dopo decenni di lassismo, approssimazione e connivenze con la peggiore feccia criminale. Fa paura, ora che si è tolta la maschera. È come un figlio che poi, da grande, ti costringe alle peggiori vergogne, e tu ti domandi: «Ma è veramente mio figlio?». La risposta è sì. Una nazione è i suoi cittadini.

E c’è il rischio, se questa cortina si dirada troppo, se la vista si fa troppo acuta, che il volto dell’assassino ci faccia ancora più paura. Che dietro la nebbia, dietro quell’ultimo cumulo di detriti, diventi fin troppo facile definire la sagoma del colpevole, e che la nazione intera assomigli sempre più a un treno in corsa, quel celebre Orient Express dove tutti i passeggeri – ognuno a suo modo, ognuno per una ragione – hanno sferrato la propria coltellata, tanto che di fronte al corpo della vittima diventa difficile stabilire quale sia stato il colpo fatale.

Ma se tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole. E allora bisogna concentrarsi su chi ha ideato, chi ha progettato, chi ha eseguito. Bisogna concentrarsi sul braccio armato di un Paese in cancrena: prima individuare il cancro, poi i comportamenti che hanno portato alla malattia. La prima operazione, tutto sommato, è arrivata a compimento. La seconda non è mai partita davvero.

Il giornalista Francesco La Licata, che già in quegli anni lavorava alla Stampa, ma che aveva stretto un solido rapporto d’amicizia con Falcone durante gli anni palermitani trascorsi al Giornale di Sicilia, ci spiega di aver pensato, nell’immediatezza dell’esplosione di Capaci: Se Giovanni sopravvive anche a questo, stavolta se li mangia. Dopo un gesto così eclatante, dopo un tale sfacelo, un’esibizione così muscolare, plateale, eccessiva perfino per la nuova mafia di Totò Riina, se Giovanni Falcone fosse sopravvissuto di nuovo, dopo il già fallito attentato dell’Addaura, fermarlo sarebbe stato impossibile.

Solo che questo ragionamento l’ha fatto anche ‘u zu Totò. È per questo che sotto l’autostrada ha fatto piazzare una tonnellata e mezza di tritolo, neanche dovesse far saltare in aria tutta la montagna.

Dopo la strage, il mondo intero sta a guardare. Bisogna far presto. L’Italia è in preda alle cosche mafiose, è lo zimbello d’Europa. Anche il giudice Paolo Borsellino è stato ammazzato, e con lui cinque agenti della sua scorta. Se il Paese ha già perso la faccia, che conservi almeno quel minimo di spina dorsale che le occorre per restare in piedi. La risposta investigativa dev’essere rapida.

Nel marzo del 1993, in via Ughetti 17, a Palermo, all’interno di un covo in cui si nascondono i mafiosi Antonino Gioè, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera, vengono sistemate delle cimici. Gli investigatori ascoltano. Si parla di Capaci, dell’attentatuni, al quale, per loro stessa ammissione, hanno partecipato tutti.

I tre non reggono alla pressione degli interrogatori. Temono che Riina li faccia ammazzare. Più che di un timore, si tratta di una certezza. Gioè si suicida dentro la sua cella nel carcere di Rebibbia impiccandosi alle sbarre. La Barbera e Di Matteo decidono di collaborare con la giustizia. A pagarne le spese, per conto di Di Matteo, sarà il suo figlioletto Giuseppe, sequestrato e sciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia.

Il processo per la strage di Capaci inizia nell’aprile del 1995. Alla sbarra, fra gli altri: Totò Riina, Pippo Calò, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Bernardo Provenzano, Nitto Santapaola, Leoluca Bagarella, Giovanni Battaglia, Salvatore Biondino, Raffaele e Domenico Ganci, l’artificiere di estrema destra Pietro Rampulla, oltre ai collaboratori di giustizia Santino Di Matteo, Gioacchino La Barbera, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Antonino Galliano, Calogero Ganci, Giovanni Brusca.

Il filone d’indagine sui cosiddetti «mandanti occulti», iscritti nel registro degli indagati con le sigle di Alfa e Beta, e che rispondono ai nomi di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, non porta a nulla, sebbene i giudici parlino nel dispositivo di archiviazione di «accertati rapporti di società facenti capo al gruppo Fininvest con personaggi in varia posizione collegati all’organizzazione Cosa nostra». Rapporti che, secondo il gip, «costituiscono dati oggettivi che rendono quantomeno non del tutto implausibili né peregrine le ricostruzioni offerte dai diversi collaboratori di giustizia». Ma le ricostruzioni non sono sufficienti a incriminare Berlusconi e Dell’Utri, anche perché le dichiarazioni dei pentiti vengono giudicate «generiche ed incerte nei contenuti».

Lo scenario è sufficientemente chiaro: a uccidere Giovanni Falcone sono stati Riina, Brusca, i Graviano, Messina Denaro, Provenzano, Santapaola, La Barbera, Gioè, ecc., ecc. Ma la domanda chi ha ucciso Giovanni Falcone è una di quelle che, a ripeterle più volte, non si fa mai male. E quindi: chi ha ucciso Giovanni Falcone? L’hanno ucciso la solitudine, l’isolamento, gli attacchi politici e quelli dei colleghi, i falsi amici, i traditori, quelli che Paolo Borsellino, in un discorso pronunciato un mese dopo la strage di Capaci, tre settimane prima di finire lui stesso dilaniato da un ordigno, chiama «i giuda che l’hanno preso in giro».

La narrazione c’è, e c’è anche una sentenza definitiva. La seconda conta molto più della prima. Ma anche la prima non va sottovalutata. Una narrazione è importante. E questa, costruita non solo sulle evidenze, sui processi, sulle testimonianze, ma anche sulle ipotesi e sulle circostanze, ci mostra un’Italia che somiglia a un enorme teatro. Sul palco, illuminata dai riflettori, c’è una Fiat Croma bianca con a bordo tre persone, due magistrati e un autista, mentre da una platea affollatissima, dai balconcini straripanti, da un loggione che quasi frana giù per il peso dei suoi ospiti, una pletora di osservatori – alcuni con gli scarponi ancora sporchi di terreno, ma molti altri in giacca e papillon – scrutano l’incedere di quella Fiat Croma facendo ognuno i propri calcoli, valutando ognuno le proprie convenienze, ognuno con la convinzione che se quell’auto, per una ragione o un’altra, dovesse andare a sbattere contro un muro, non sarebbe un bello spettacolo, ma in fondo risolverebbe un bel po’ di problemi.

Ora che il fumo si dirada, ora che il suono delle sirene si affievolisce, la polvere e il pietrisco si posano sull’asfalto, la vista è più chiara. Le vediamo bene, quelle carcasse d’auto. Quei corpi straziati. Quelli che brindano, finalmente liberi, senza più freni. Vediamo anche quelli che piangono, orfani di una speranza che tarderà a ritornare. Quelli con la calcolatrice in mano, che annotano cifre e transazioni per capire cosa ci hanno perso e cosa ci hanno guadagnato. E quelli che invece si voltano dall’altra parte, lontano dalla bretella autostradale, verso un mare azzurro che promette libertà ma che, anche lui, com’è uso e costume, ha imparato a mentire.