Lusso e scelleratezze. I cinesi non navigano: stanno in rada a giocare a carte; i tycoon hanno la barca-frigo. Rinchiuso in venti metri quadrati, ogni forellino o spigolo, seggiola o armadietto, persino il pomello […]

(DI ANTONELLO CAPORALE – ilfattoquotidiano.it) – Rinchiuso in venti metri quadrati, ogni forellino o spigolo, seggiola o armadietto, persino il pomello del copri-cesso, la corona della rubinetteria del lavabo, lo spazzolone, tutto insomma era l’esito di un ingorgo di dollari, il flottante della parte di umani non ricchi ma ricchissimi da non riuscire a contare la propria debordante esistenza e l’incomprimibile passione di abbuffarsi di soldi sempre più.

Riflettevo – mentre i maestri artigiani assestavano candide scoppole di martelletti vellutati per rendere la curvatura del mogano pregiato esattissimamente simile alle richieste dell’occhiuta committenza – su quel che mi aveva appena detto il responsabile di produzione della fabbrica di yacht. “I cinesi odiano il sole e non navigano. Quindi scelgono lo yacht per tenerlo in rada, legarlo al porto, immobilizzarlo nell’acqua verde, tra la fanghiglia gentile delle alghe squamose. I loro gusti perciò tradiscono l’intenzione capovolta rispetto alla logica delle cose. Non ci chiedono una barca ma una sala giochi, un grande tavolo rotondo, sebbene noi lo sconsigliamo perché riduce gli spazi, rovina l’armonia architettonica, restringe la capacità di questi gioielli del mare”. I cinesi ultra ricchi si fanno costruire lo yacht per non sfigurare con gli americani ultra ricchi e con il resto del mondo decisamente del loro livello, quella parte di mondo incipriata da cima a fondo di azioni, obbligazioni, ville e casali. Ma, nel caso dei cinesi, spesso è tutto una meravigliosa finzione. Vanno in barca per giocare a carte. Neanche un miglio di mare. Fermi. Capito?

Ero salito fino ad Avigliana, nel pianoro sopra Torino, all’imbocco della Val di Susa per assistere al conflitto teatrale tra ricchezza e povertà. Di qua il fango e le mazzate, le badilate, le cariche della polizia contro i resistenti che dicono “No” a bucare le Alpi per far passare il treno veloce, il famigerato Tav; di là, l’universo dei ricchi, l’adorazione per il principio e il destino ultimo del proprio benessere. L’accumulazione della ricchezza, anzi l’ossessione per l’accumulo, l’intrepida edizione della fabbrica della ricchezza, che è anche misura della passione e simbolo di ogni esistenza extra lusso: lo yacht.

Capiamoci: c’è barca e barca, yacht e yacht. Azimut Benetti è l’azienda italiana leader nella costruzione dei mega yacht. Non uno né dieci, ma venti, trenta, quaranta milioni di euro. Anzi di più, ancora di più. Così esagerata, smodata, enorme, sconfinata passione verso il lusso da far decidere ai cinesi che odiano il mare di attrezzare una barca da riposo, da fermo tecnico, da ingombro portuale. Eccentrica dimensione possibile solo grazie all’enorme conto in banca per dar corso a un modo di vivere o anche solo di fingere. Una noia mortale, cioè.

Quei venti metri quadrati foderati di oro zecchino, dentro cui mi sono ritrovato alla cima del pianoro che ospitava la battaglia infinita a suon di roncole, mi avevano però concesso per la prima volta la misura esatta di ciò che pochi tra noi, ma molti più di quanto immaginiamo, sono in grado di esprimere. Sempre cosucce, idee modeste, ambizioni di piccolo cabotaggio a fronte della grandiosità della potenza ostentata.

I riccastri americani per esempio fantasticavano su grandi grigliate e chiedevano perciò che la poppa fosse intasata di fuochi e di acciaio, ardesse malgrado il sole agostano e inghiottisse cosciotti di agnello e bistecche argentine fregandosene dei 35 gradi e più. Una barca di birre e di freezer, di capsule gastronomiche, di whisky e Coca-cola. Più che uno yacht una grande osteria acquatica.

Cosicché un moto d’ansia mi ha colto quando alcuni giorni fa ho letto che la città di Napoli era letteralmente prostrata, molto più che dispiaciuta, davvero mortificata per il rifiuto pazzesco del capo del porto di Mergellina di non fare attraccare Symphony – 101 metri di lussuria al mille per mille e di ori esibiti nel vero senso della parola – per via dello scoglio maligno di una norma che vieta in quel molo l’attracco a barche lunghe oltre 75 metri. Così a Mergellina la ricchezza è divenuta un problema, il troppo lusso una complicazione. E così il timoniere della nave delle meraviglie, il francese Bernard Arnault, ceo di Lvmh, il gruppo che riunisce i maggiori brand del lusso (Vuitton, Bulgari, Dior, Fendi, Givenchy) è dovuto rimanere, insieme alla folta compagnia, al largo del Vesuvio. Un affronto mai visto per un tizio da 187 miliardi di dollari di patrimonio: “Una sua barca spende al giorno tra i 50 e i 100 mila euro”, hanno commentato disperati i commercianti, mentre il giga yacht lasciava la rada per altre località.

Com’è potuto accadere? Quella montagna di soldi fermata al largo, un cofanetto di tristezza visto che alla Stazione marittima, stesso mare e stessa città, poche settimane prima era attraccato il Rising Soon di David Geffen, un altro riccastro che in un pomeriggio aveva speso, wow!, 400 mila euro di carburante e 100 mila euro per la cambusa e alcuni “piccoli capricci” degli ospiti.

Non c’è misura né speranza che i soldi acquietino, lascino una via di fuga all’intelligenza, alla ragione, alla logica.

Eccedere per eccedere e dare così spazio all’ossessione, figlia degenere della passione.