Il salto indietro al tempo dei lazzari. L’occupazione non salva dall’indigenza. La cecità sociale ha coinvolto anche la sinistra che non ha provato a governare il malessere diffuso. Bisogna riflettere sulle esternalizzazioni

(di Isaia Sales – repubblica.it) – Quando Wolfgang Goethe arrivò a Napoli nel 1787 capovolse le valutazioni che i viaggiatori e i saggisti dell’epoca riservavano al modo di vivere dei napoletani. Fino a quando non fu pubblicato Viaggio in Italia, il convincimento generale era che la città partenopea fosse abitata da un numero sproporzionato di oziosi, sfaccendati e nullafacenti (definiti “lazzaroni”) che si aggiravano per le strade apparentemente senza fare un mestiere preciso, perennemente in cerca di qualche piccolo guadagno per sfamarsi. Goethe fu il primo a non confondere povertà e oziosità, precarietà del lavoro e scarsa voglia di faticare, ma a guardare stupito il fatto che quelle migliaia di miseri si muovessero di continuo per svolgere lavori così improbabili e così poco redditizi da suscitare simpatia e ammirazione.
Per Goethe, dunque, i poveri napoletani non erano incalliti scansafatiche, incoscienti cantori del dolce far niente, ma al contrario incessanti cercatori di opportunità di guadagno per mantenere la propria famiglia. Un popolo di formiche e non di cicale, con la differenza di non poter accumulare niente di solido per gli inverni delle loro vite.
Mi è venuto in mente il grande scrittore tedesco nel commentare i dati sui cosiddetti “lavori poveri”, oggi al centro di un’inchiesta di Repubblica, che vedono ancora una volta il Sud primeggiare in questa classifica, anche se il tasso di precarietà del lavoro (e di scarsezza di reddito procurato) è ormai un fatto che accomuna più territori e più settori nell’Italia di oggi. Ma ai tempi delle acute riflessioni di Goethe su Napoli la precarietà, la marginalità del lavoro e la miseria coincidevano, e lo scrittore ci teneva a separare questa identificazione dai tanti gratuiti giudizi morali, perché la povertà in nessuna epoca può essere considerata una scelta soggettiva. Solo persone gonfie di pregiudizi e di disprezzo sociale possono immaginare che si scelga di restare poveri, o che la miseria sia solo l’altra faccia della mancata volontà di sollevarsi dal bisogno.
Nei due secoli successivi, è avvenuto (per ragioni che sarebbe arduo illustrare in poche parole) che miseria e lavoro si sono nettamente separati, anzi si sono addirittura contrapposti: chi aveva un lavoro non era più povero e chi era povero non aveva ancora un lavoro. Grazie allo sviluppo della società industriale e alla dignità che il lavoro di fabbrica e nei campi aveva conquistato con gli apostoli del socialismo e poi con le organizzazioni sindacali, il lavoratore si è separato definitivamente dai paria della società. Lavorare voleva dire non essere confuso con la marginalità, acquisire dignità e considerazione di sé, e la dignità equivaleva alla possibilità di mangiare, vestirsi decentemente, pagare l’affitto, fare studiare e curare i figli, impegnarsi per la difesa dei propri diritti e, per alcuni anni (soprattutto nel trentennio sessanta-novanta del Novecento) permettersi anche qualche settimana di vacanza in estate.
E anche se si svolgeva un lavoro precario, esso non coincideva immediatamente con la povertà, perché si poteva entrare nel mondo del lavoro con posti precari e poi via via si saliva lungo una strada che ti emancipava dai bisogni materiali della vita. La precarietà era comunque il primo scalino su cui si saliva per uscire dall’anonimato sociale.
Oggi, invece, il lavoro non garantisce l’incolumità dall’indigenza; precarietà e insignificanza sociale tornano a essere sinonimi. Certo, dipende dai lavori svolti o da quanti, diversi, bisogna farne al giorno, mettendo insieme salari veri a pagamenti in nero, sostegni pubblici e familiari, mischiando situazioni lavorative complicate da classificare. Insomma, si può essere occupati e non farcela a vivere dignitosamente, si possono fare più lavori nella stessa giornata senza che ciò protegga dalla mancanza di un reddito sufficiente a sopravvivere.
Siamo tornati indietro e ce ne accorgiamo con impressionante ritardo. Questa nostra nazione piena di percettori di reddito di cittadinanza, oziosi beneficiari di sostegni pubblici che impedivano di trovare persone disponibili a fare lavori ben pagati, non corrisponde minimamente alla realtà. L’alternativa al reddito di cittadinanza è fatta di tanti lavori mal pagati e mal tutelati. L’Italia non conosce sé stessa e non la vuole affatto conoscere: la cecità sociale è uno dei mali più ricorrenti delle nostre classi dirigenti.
Negli ultimi anni questa cecità ha coinvolto purtroppo anche la sinistra. Indubbiamente, è venuta meno la volontà del passato di riflettere sul malessere sociale, di provare a governarlo e ad attutirlo piuttosto che a disprezzarlo, come è prassi di oggi. Ad esempio, andrebbe fatta una seria valutazione su come l’esternalizzazione di diversi servizi che prima si svolgevano all’interno delle amministrazioni pubbliche e delle aziende hanno creato un mercato secondario che ha nei fatti legittimato sottoccupazione e sotto salario: risparmio economico ma danno sociale. Parafrasando Corrado Alvaro si potrebbe dire che la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società basata sul lavoro è il dubbio che il lavoro non tuteli più dalla indigenza e dalla precarietà del vivere.
Vogliono pace fiscale e guerra sociale.
E la repubblica (giornale) è sempre stata al limite della complicità.
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” Ritorno dei lazzaroni”?
Non ricordo un Paese onesto, prospero, colto, egualitario, contribuente… fino allo scorso anno.
Voi?
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I lettori di certa carta stampata (utile per incartare patate e pesce) si ricordano come le loro testate di riferimento trattavano l’unico partito che si è battuto (al governo) per una equità sociale?
Questi lettori si rendono conto di come sono trattati?
Da defi.cienti senza memoria!
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