LA DISTANZA TRA GOVERNO E REALTÀ – La maggioranza parla e decide senza conoscere: in Europa più figli dove retribuzioni e occupazione femminile sono più alte

(DI PASQUALE TRIDICO* – ilfattoquotidiano.it) – Il rapporto dell’Istat presentato al Parlamento il 7 luglio scorso, certifica lo stato comatoso del mercato del lavoro italiano, negativamente e pesantemente inclinato su un piano. Questo piano inclinato è determinato principalmente da tre fattori: la demografia, i salari in declino e la mancanza di politiche per i giovani.

Cominciamo dalla demografia. Da anni, ormai, il tasso di fecondità nel nostro Paese è intorno a 1,2, l’età media del primo figlio per donna è oltre 32 anni, e il numero di figli negli ultimi anni è stato sotto i 500mila nati all’anno, con il picco più basso raggiunto nel 2022 pari 393mila nati. Sono lontani gli anni Sessanta, quando il numero di nati all’anno era di circa un milione. Oggi si fanno meno figli innanzitutto perché 15-20 anni fa sono nate meno donne rispetto a 40 anni fa. Lo stesso tasso di fecondità (1,2), ovviamente produce un risultato più basso della metà se la platea interessata si è dimezzata. E per avere un risultato in termini di nati doppio rispetto a quello che abbiamo oggi (393mila) dovremmo avere un tasso di fecondità intorno a 2. Cosa semplicemente impossibile nel breve e medio periodo. La Francia, ad esempio, ha un tasso di fecondità intorno a 1,8, dopo anni di politiche di conciliazione per la famiglia, incentivi alle donne e servizi per i bambini. Sono cose ovvie, ma è bene ricordarlo perché non sembra che i nostri politici al governo le conoscano bene. Non è un caso se in tutti i Paesi ricchi, con bassa natalità, si fa ricorso regolarmente all’immigrazione in modo importante.

Alla base delle scelte di riproduzione ci sono sicuramente legittime preferenze personali e approcci culturali su cui si può difficilmente incidere nelle democrazie. I Paesi più ricchi, che hanno completato la transizione demografica, hanno raggiunto bassi livelli di mortalità infantile, elevati livelli di istruzione, e tendono in genere ad avere meno figli. In questi Paesi, il fattore trainante la crescita economica, più che il numero di unità di lavoro, è il progresso tecnologico, che sostituisce tecnologia con lavoro.

Ma ci sono anche ragioni di ordine economico e sociale che spiegano il declino demografico, a parità di altre condizioni, su cui certamente si può e si deve intervenire. Queste ragioni sono essenzialmente due: il basso tasso di occupazione femminile e lo scarso livello di reddito. Oggi sappiamo con certezza, dall’evidenza dei Paesi avanzati, che laddove le donne lavorano di più, fanno più figli. Il tasso di occupazione in Italia è del 51% per le donne (contro il 69% degli uomini), mentre in Europa in media il tasso di occupazione femminile è del 68% (contro quasi il 79% in media per gli uomini). Lo scarto occupazionale tra uomo e donna, quindi in Italia è di quasi 20 punti percentuali, contro i poco più che 10 punti percentuali in Ue. Il più basso tasso di fecondità in Italia rispetto all’Ue si spiega fondamentalmente con questo scarto, e quindi è qui che bisognerebbe incidere. Anche perché sappiamo che le donne italiane, intervistate da un’indagine statistica sul numero dei figli desiderati, hanno risposto convintamente che il loro numero desiderato di figli in media è 2, ma nella realtà le condizioni socio-economiche portano poco più che 1 figlio per donna in media.

Inoltre, le regioni italiane con più alti tassi di fecondità sono proprio quelle dove le donne lavorano di più e i servizi per la famiglia e per i figli sono maggiormente presenti. Ad esempio, in Trentino-Alto Adige, dove i tassi di occupazione femminile sono vicini a quelli medi europei, i tassi di fecondità sono oltre 1,5; mentre in Calabria, dove i tassi di occupazione femminile sono sotto il 40%, i tassi di fecondità sono inferiori addirittura alla media italiana. Quindi alla base della scarsa natalità si annida anche un forte gender gap oltre che la mancanza di servizi per la famiglia e la scarsa attrattività di offerte di lavoro per le donne, in termini di bassi salari e basso numero di ore, che fanno spesso optare la donna per non lavorare piuttosto che accettare bassi salari con i quali sarebbe impossibile pagare i servizi necessari per la cura dei figli.

E veniamo quindi al secondo fattore alla base del declino: i bassi salari. Molti opinionisti argomentano che i bassi salari sono frutto di bassa produttività, il che certamente ha un parziale fondamento, ma non spiega tutto. Innanzitutto la produttività media negli ultimi 20 anni è cresciuta del 12% mentre i salari sono diminuiti del 2%, quindi anche su questo versante il modello di contrattazione sindacale, in media, non è riuscito a distribuire efficacemente i pochi guadagni di produttività avuti.

Inoltre la politica del contenimento dei salari ha favorito, e continua a favorire, scarsi investimenti in tecnologia, sviluppo di settori nei servizi a scarso valore aggiunto a danno della manifattura e a danno di un utilizzo più efficiente di capitali che in altri settori industriali porterebbero maggiore produttività del lavoro e quindi maggiori salari, oltre che più alta crescita. Si verifica quindi un avvitamento negativo che ha fondamento in un’assenza di politica industriale che incentivi a investimenti in settori ad alta tecnologia, trova terreno fertile nei bassi salari e nella eccessiva flessibilità del lavoro (che si traduce in precarietà) su cui fare competizione per consentire alle aziende in questi settori di galleggiare, e si conclude con l’ottenimento di una scarsa produttività nell’azienda. Questo processo porta a bassi salari e si alimenta di bassi salari.

In Germania, ad esempio, il salario viene spesso tenuto a un livello più alto della produttività per favorire continuamente investimenti tecnologici e permettere una rincorsa virtuosa della produttività per agganciarsi alla crescita del salari. Non è un caso che il salario minimo, introdotto in quel Paese nel 2015 poco sotto i 9 euro, viene velocemente portato nel 2022 a 12 euro, e si discute oggi di ulteriori incrementi alla luce degli attuali alti livelli dell’inflazione. In Italia l’inserimento di un salario minimo a 9 euro sarebbe anche uno choc positivo per l’economia, capace non solo di fornire maggiore potere di acquisto ai lavoratori, e quindi maggiori consumi e maggiore domanda per oltre 4,2 milioni di lavoratori, ma interromperebbe anche quel circolo vizioso spiegato prima.

I bassi salari interessano soprattutto i giovani under 35. Sono infatti il 38% dei giovani ad avere salari sotto i 9 euro lordi l’ora. Il problema della mancanza di opportunità per i giovani rappresenta il terzo fattore che spiega il declino. L’Istat nel suo rapporto certifica la presenza di 1,7 milioni di Neet, ovvero di giovani che non studiano e non lavorano. Questo dato negli ultimi anni, complice anche la pandemia, è stato aggravato da abbandoni scolastici e da emigrazione di giovani verso l’estero, soprattutto dal Sud. Problema che segnala non solo la grande volontà dei nostri giovani di lavorare, ma anche la contraddizione di avere alti livelli di disoccupazione giovanile, e giovani che vengono però attratti da migliori condizioni di lavoro e di salario all’estero, con uno spreco enorme di investimenti in capitale umano e di risorse umane.

Questi problemi sono maggiormente presenti al Sud, ma anche il Centro-Nord non è esente. L’occupazione giovanile non si crea con maggiore flessibilità o con lavoretti, ma con maggiori investimenti in nuove tecnologie e formazione continua, che sviluppino competenze e nuovi settori produttivi, che per definizione sono quelli più attrattivi per i nuovi lavoratori, ovvero i giovani. Al contrario, abbiamo la più bassa quota di giovani impiegati in settori tecnologicamente avanzati in Ue. Questo è frutto del duplice fallimento: i bassi livelli di istruzione, soprattutto terziaria, e la scarsa capacità di assorbimento da parte di un tessuto produttivo in gran parte poco avanzato, incapace di attrarre anche i (relativamente) pochi laureati a condizioni congrue di lavoro e di salario.

*Università Roma Tre, già presidente Inps