L’OLEODOTTO DA EL COCA A LAGO AGRIO – 30mila persone hanno subito malattie respiratorie, tumori e aborti. Ma a pagare è stato l’avvocato della difesa, accusato da un giudice stipendiato da Chevron […]

(DI ALESSANDRO DI BATTISTA – ilfattoquotidiano.it) – Lungo la strada che va da El Coca a Lago Agrio c’è un grande oleodotto. Da decenni porta il petrolio estratto nell’Amazzonia ecuadoriana fino al porto di Balao, sull’Oceano Pacifico. Una parte finisce nella raffineria di Esmeraldas, il resto, la maggior parte, viene imbarcato sulle petroliere che partono per la Cina o per gli Stati Uniti.

La prima grande impresa petrolifera che ha sfruttato i giacimenti amazzonici dell’Ecuador è stata la Texaco, una delle Sette sorelle del petrolio, per utilizzare l’espressione di Enrico Mattei. Furono i dipendenti del colosso texano a chiamare una modesta cittadina amazzonica Lago Agrio, ovvero la traduzione in spagnolo di Sour Lake, il piccolo centro dove, nel 1901, la Texas Company (così si chiamava un tempo Texaco) scoprì un grande giacimento di petrolio.

Texaco operò in Ecuador dal 1964 al 1990 arricchendosi e inquinando. Tutti sappiamo quel che avvenne a ČCernobyl o nel Golfo del Messico nel 2010, quando dalla piattaforma Deepwater Horizon, gestita dalla British Petroleum, fuoriuscirono migliaia di tonnellate di greggio. Vi sono tuttavia disastri ambientali del tutto dimenticati. Come il disastro di Bhopal in India o quel che avvenne in Amazzonia ecuadoriana per mano della Texaco che estrasse petrolio senza alcun controllo statale, sversando nelle acque dei fiumi amazzonici milioni di barili di greggio e sostanze chimiche. La contaminazione provocò danni ambientali e danni alla salute per migliaia di persone.

Secondo il Frente de Defensa de la Amazonía, organizzazione che lotta a favore delle comunità indigene e per l’ambiente, 30.000 persone che risiedevano nei 12 campi petroliferi gestiti da Texaco subirono drammatiche conseguenze. Malattie respiratorie e della pelle, aborti, tumori. Nel 1993 il Frente denunciò la Texaco negli Stati Uniti, ma la causa non partì mai. Raramente le istituzioni nordamericane colpiscono colossi che spesso sono più potenti di loro. Nel 2002 la causa venne trasferita in Ecuador e dopo otto anni il Tribunale di Lago Agrio condannò la Texaco al pagamento di 18 miliardi di dollari di danni, poi ridotti a 9. Tuttavia Texaco non ha mai pagato un centesimo non avendo più alcuna proprietà in Ecuador.

Al contrario, chi ha pagato per il suo lavoro è stato un avvocato statunitense, Steven Donzinger, il quale, nel 1993, appena uscito da Harvard, lavorò al caso per conto delle comunità indigene. La Texaco, nel frattempo fusasi con la Chevron Corporation, denunciò Donzinger per essersi comprato la sentenza in Ecuador. L’accusa si basava sulla testimonianza, poi ampiamente ritrattata, di un giudice ecuadoriano, Alberto Guerra, il quale, casualmente, nel 2015 si trasferì negli Stati Uniti ricevendo un lauto stipendio da Chevron. Donzinger finì ai domiciliari per pericolo di fuga, venne condannato per oltraggio alla corte, per essersi rifiutato di consegnare il pc e venne radiato dall’ordine. Vive tuttora in gravi ristrettezze economiche. This lawyer should be world-famous for his battle with Chevron – but he’s in jail è il titolo di un pezzo scritto lo scorso anno per il Guardian da Erin Brockovich, l’attivista statunitense nota per la battaglia contro la Pacific Gas & Electric colpevole di aver inquinato per anni con il cromo esavalente le acque di Hinkley .

Il Frente de Defensa de la Amazonía continua a operare nell’Amazzonia ecuadoriana ma, a detta del presidente Ermel Chávez, il lavoro è sempre più duro e le comunità indigene, le custodi dell’Amazzonia, sono sempre più sotto minaccia. “Io conosco perfettamente la teoria – dice Chàvez – ho studiato formazione politica e sociale, conosco a memoria dati sugli effetti della contaminazione petrolifera, sui danni causati dalla coltivazione di palma o dalle miniere di oro, ma non è facile convincere le comunità a chiudere le porte a tali minacce. La povertà è troppa”.

È la povertà delle comunità indigene la migliore alleata per tutti coloro che intendono sfruttare l’Amazzonia. Compagnie petrolifere (oggi anche cinesi ed ecuadoriane), latifondisti della palma africana, proprietari di miniere di oro (spesso illegali) e trafficanti di legname pregiato. È dannatamente facile per loro convincere le comunità indigene o i contadini ad aprire le porte di casa. In cambio di esplorazione petrolifere, di un’istallazione mineraria o del disboscamento di qualche centinaia di ettari di foresta per la coltivazione della palma, il cui frutto si utilizza nell’industria cosmetica, promettono la costruzione di una scuola, di un centro di salute, di una strada asfaltata o qualche capo di bestiame. La povertà rende praticamente impossibile rifiutare tali proposte. E si trasforma in miseria quando persino nelle comunità indigene dell’Amazzonia arrivano, tramite i video sui cellulari o le novelas messicane o colombiane, modelli sociali ed economici falsi ma non per questo meno allettanti.

Se poi non bastassero le assicurazioni arrivano le minacce. Lungo il Rio Napo, uno dei principali affluenti del Rio delle Amazzoni o lungo il Putumayo, il fiume che segna il confine occidentale tra Ecuador e Perù, sono molte le miniere d’oro illegali. Miniere che inquinano e che spesso sono controllate da gruppi criminali ecuadoriani o da paramilitari colombiani. Nella provincia di Orellana sembra che la ricerca illegale dell’oro nei fiumi amazzonici sia divenuto uno dei business dei Los Choneros, un gruppo criminale ecuadoriano dedito all’estorsione, al sicariato e al traffico di droga nato nel 2005 nella provincia di Manabí.

Tutto questo avviene nel cuore dell’Amazzonia ecuadoriana, a pochi km in linea d’aria dal Parque Nacional Yasuní, 9.820 km quadrati di foresta pluviale che custodiscono probabilmente la più grande biodiversità al mondo. È qui che vivono i Tagaeri e i Taromenani, gli ultimi due popoli indigeni dell’Ecuador che hanno scelto il totale isolamento dalla civiltà. E sono costretti a nascondersi sempre più nella profondità della selva perché anche all’interno di un’area protetta come quella del Yasuní si estrae petrolio e si abbattono alberi dal legname pregiato. A volte mi domando se la civiltà sia quella dei consumi o quella che incarnano gli ultimi indigeni del pianeta.