(Giuseppe Di Maio) – Se avete avuto l’impressione che il vostro prossimo abbia alzato da un po’ di tempo il suo livello di aggressività: sia diventato protervo, sospettoso, e intollerante, beh, non è solo un’impressione. In un mondo sempre più popolato e interconnesso le vicende collettive scavano più profondamente nell’animo umano e lasciano tracce evidenti e durature. Il terremoto emotivo scatenato a livello planetario fin dai primi giorni della pandemia ha causato una virata dello spirito pari agli effetti di un decennio di storia economica e politica. Il nostro paese, capofila delle misure anti contagio, dopo aver giocato un paio di settimane nella novità della costrizione domestica con l’esaltazione dei primati nazionali, ha cominciato a non tollerare la reclusione. Anche il più sprovveduto dei cittadini, abituato a temere la complessità della struttura sociale e a sottomettersi, comincia a notare l’impotenza dell’uomo: dello Stato, delle sue dirigenze, dell’autorità, nei confronti di un nemico invisibile che spazza via tutte le regole sociali. L’animo reazionario che mal sopporta la grave interruzione della sua guerra di ceto, si sostituisce alla pletora dei virologi e dei politici che pretendono obbedienza senza indicare una via d’uscita certa, e semplifica. Nasce l’avversione contro l’autorità scientifica, politica, morale; di lì a poco si registra anche un aumento dei reati e della violenza, spesso di genere. Il consenso verso i populisti fa nascere governi di destra. Insomma, non pare che dalla pandemia ne siamo usciti migliori.

Ma nel forzato riposo prende forma anche un altro fenomeno. Allo stesso modo di come siamo incapaci di reagire presi dal giro delle occupazioni, della stanchezza, dello stress, e all’opposto proprio dopo le vacanze, il lunedì mattino, a inizio turno, ci viene di contestare e di insorgere, così, durante la lunga pausa domestica, quando abbiamo scambiato la notte con il giorno, l’ora dei pasti e dello studio, in molti di noi è sorta la voglia di ripensare al senso della propria vita. L’esito di questa meditazione per parecchi sono state le dimissioni volontarie, l’abbandono del posto di lavoro, di cui non si sono più tollerati gli inutili sacrifici. Il nostro paese è l’unico dell’Ocse in cui i salari in oltre trent’anni sono diminuiti, non è stata fatta una legge sul mobbing, e le condizioni di lavoro a volte sono ottocentesche. Nonostante resista ancora la mitologia del lavoro come unico mezzo di riscatto sociale, i fatti e le politiche dimostrano il contrario: il lavoro è sempre più disprezzato e mal pagato, il rapporto capitale/reddito è sempre più a scapito del secondo e alimenta una disuguaglianza che non si scorgeva dalla Belle Époque. Sorge strisciante la convinzione che il lavoro non sia un mezzo di emancipazione, ma di schiavitù.

Risposte diverse a uno stesso disagio. Il primo, nella sua forma reattiva, è una sostanziale affermazione dell’ordine sociale; il secondo, che equivale ad un sonoro vaffanculo, è di certo l’incubatore di un profondo atteggiamento rivoluzionario. Che sia la volta buona?