Non ci sono in gioco solo paga e carriera, ma la libera scelta positiva di fecondità

Lavoro, Chiara Saraceno: “I figli aumentano le diseguaglianze, la maternità è un costo troppo alto”

(CHIARA SARACENO – lastampa.it) – La maternità non è solo una delle cause delle diseguaglianze tra uomini e donne nella partecipazione al mercato del lavoro, nei salari, nella progressione di carriera e nella ricchezza pensionistica. È anche una delle cause delle diseguaglianze tra donne rispetto agli stessi ambiti. Le donne che diventano madri escono più facilmente dal mercato del lavoro di quelle che non hanno figli. Ed anche quando rimangono nel mercato del lavoro guadagnano di meno, nel breve ma anche medio periodo ed hanno una progressione di carriera più ridotta delle donne senza figli. Ciò spiega in larga misura perché le loro pensioni sono più basse non solo di quelle degli uomini, ma anche delle coetanee senza figli.

Le diseguaglianze di genere sono l’esito della combinazione di fattori diversi, in cui giocano un ruolo importante gli stereotipi di genere, non solo per quanto riguarda la scelta dei percorsi formativi, ma anche la divisione del lavoro e delle responsabilità familiari, le aspettative dei datori di lavoro anche a prescindere dal fatto che una donna abbia o meno figli, la (insufficiente) disponibilità di politiche di conciliazione lavoro-famiglia. Ne derivano una minor partecipazione delle donne al mercato del lavoro, che in Italia è nettamente più bassa della media europea, ancorché in aumento, insieme a una forte concentrazione nei settori caratterizzati da salari più bassi, nei contratti a tempo determinato, nel part-time involontario.

Per quanto riguarda i salari, se è vero che il divario di genere in Italia è apparentemente più contenuto che nella media europea, ciò è dovuto esclusivamente al fatto che in Italia il livello di istruzione è decisivo più che in altri paesi per la partecipazione delle donne nel mercato del lavoro e per la probabilità di rimanervi anche nel caso di maternità: sono le donne maggiormente istruite, quindi con accesso a professioni meglio remunerate, ad entrare e rimanere nel mercato del lavoro. Ma se si considerano i salari di uomini e donne a parità di livello di istruzione, il divario non è dissimile da quello europeo ed è più ampio proprio ai livelli di istruzione più alti, come effetto combinato di progressioni di carriere più lente per le donne e di una concentrazione di queste nei settori ove le remunerazioni sono più basse.

Quanto al part-time, è molto cresciuto rispetto agli anni Novanta; ma più che una scelta di conciliazione famiglia-lavoro come è stato ed in larga misura ancora è nei paesi in cui era il modo prevalente di partecipazione delle donne al mercato del lavoro, è un dato di necessità per mancanza di alternative. Come è scritto nel Rapporto, da paese caratterizzato da una bassa incidenza del lavoro part-time in generale e in particolare tra le donne, l’Italia è diventata lo Stato europeo con la più alta quota di donne per le quali la scelta dell’orario ridotto è determinata dalla mancanza di occasioni di lavoro a tempo pieno. Vale per più di una donna su due, rispetto a meno di una donna su cinque nella media dell’Unione europea.

Come osserva sempre il Rapporto della Banca d’Italia, l’incidenza particolarmente elevata – specialmente tra i nuclei meno abbienti – di coppie in cui la donna non è occupata o lavora poche ore aumenta la diseguaglianza dei redditi familiari e, aggiungo io, l’elevato rischio di povertà nelle famiglie con più figli minorenni.

A ben vedere, alcuni dei fattori che spiegano il divario di genere nel mercato del lavoro valgono anche per le disuguaglianze tra donne con e senza figli: stereotipi di genere e insufficienza di politiche di conciliazione (congedi, servizi) che a loro volta sostengono una divisione del lavoro familiare squilibrata, spingendo le madri, se non ad uscire dal mercato del lavoro, a rimanervi con difficoltà. Confermando e ampliando dati in parte già noti, il Rapporto stima che negli ultimi trent’anni circa la probabilità per le donne occupate di non avere più un impiego nei due anni successivi alla maternità è stata quasi doppia rispetto alle donne senza figli. Non solo, il divario persiste nel tempo e risulta ancora notevole a quindici anni dal parto. Se le donne non sono occupate al momento della maternità, la probabilità di trovare un lavoro diminuisce notevolmente dopo la nascita di un figlio e rimane più bassa per almeno cinque anni. Anche coloro che rimangono nel mercato del lavoro e occupate pagano un prezzo. A parità di età, competenze e reddito da lavoro iniziale, la retribuzione annua delle madri a quindici anni dalla nascita del primogenito è, infatti, in media circa la metà di quella delle donne senza figli. In larga misura, secondo il Rapporto, ciò è determinato dalla riduzione delle ore lavorate. Ma gioca un ruolo anche il rallentamento della progressione di carriera, spesso dovuta non tanto o solo ad un disinvestimento nel lavoro da parte delle madri lavoratrici, ma ad un disinvestimento su di loro da parte dei datori di lavoro, come è documentato da molte ricerche.

Ridurre drasticamente il costo, per le donne, della maternità in termini economici, di riconoscimento professionale, di doppio lavoro, tramite politiche che contrastino gli stereotipi, alleggeriscano e facilitino la condivisione del lavoro di cura con congedi ben pagati e servizi di qualità, riducano il part time involontario e la discriminazione contro le madri, non è solo richiesto dal criterio dell’equità. È anche indispensabile se si vogliono sostenere le libere scelte positive di fecondità.