Molti ricordano che, una settimana fa, quando sembrava che la città di Ravenna sarebbe stata travolta dall’alluvione la cooperativa agricola braccianti, Cab Terra di Ravenna non esitò, per salvare la città […]

(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – Molti ricordano che, una settimana fa, quando sembrava che la città di Ravenna sarebbe stata travolta dall’alluvione la cooperativa agricola braccianti, Cab Terra di Ravenna non esitò, per salvare la città dei mosaici, a consentire la rottura dell’argine del canale Magni, deviando l’acqua che allagò i propri campi compromettendo l’intero raccolto (un danno alle colture calcolato in milioni di euro). Una decisione presa senza neanche il tempo di avvisare i soci tanta era l’urgenza dell’intervento. In queste ore i protagonisti di quello straordinario esempio di sacrificio per il bene della comunità apprendono, come tutti gli abitanti di una terra martoriata, che la nomina di Stefano Bonaccini a commissario della ricostruzione sarebbe stata “congelata” (testuale) dalla premier poiché FdI, con l’appoggio della Lega, “punta a gestire i dieci miliardi del dopo alluvione e poi conquistare la Regione” (Repubblica). Non sappiamo se il presidente dell’Emilia-Romagna sia la persona più adatta ad amministrare quei giganteschi finanziamenti (gli si attribuiscono non poche responsabilità nella ulteriore cementificazione del territorio) ma il punto è un altro: la vergogna di una maggioranza arraffona, ossessionata da prebende e poltrone che mostra di fregarsene altamente della sofferenza delle popolazioni. Che, dopo otto giorni, mentre quegli altri spartiscono e congelano, restano ancora con l’acqua alla gola come vediamo nei reportage dei tg. Se questo quadro moralmente miserrimo fosse confermato non esiteremmo a chiedere scusa ai nostri lettori per aver creduto che la foto dell’abbraccio della Meloni a Bonaccini sui luoghi della catastrofe fosse il simbolo di uno sforzo comune. Che immortalasse l’impegno preso da due personaggi così lontani politicamente di non perdere un attimo di tempo per salvare il salvabile, a costo perfino di allagare i propri campi. La bulimia di potere che ingrassa Palazzo Chigi e dintorni ricorda la canzone che Roberto Benigni dedicò alla smania di possesso di Silvio Berlusconi (“La Camera è mia, è mio il Senato, è tutto mio, faccio sul serio cari italiani”). Con la differenza che questi si arrampicano, si arrampicano ma è tutta pianura, anzi un acquitrino.