Fabio Fazio ha fatto benissimo ad andarsene. Lui non ha debiti politici. Gli ho consigliato di levare il disturbo. Se mi chiama andrò

(di Michele Serra – repubblica.it) – Fabio Fazio è la Rai – considerazione storico statistica – ben più dei manipoli politici che, nel corso degli anni, la occupano, cercando di sellare il cavallo di viale Mazzini per le loro parate. E mettendoci, di loro, solo il pennacchio. La Rai senza Fazio sarà dunque una Rai un po’ meno Rai, ma non è certo questo che importa a chi lo vede andarsene, e gongola nell’illusione che fare televisione non sia un lavoro serio e difficile, ma un rosario di posti e posticini da distribuire alla corte.

Non ci sono retroscena particolari da raccontare. C’è un contesto molto preciso, però, da mettere a fuoco. Lavorare per un editore che ti considera un nemico interno è possibile fintantoché uno scopo condiviso riesce a rendere funzionale, e perfino utile, una convivenza complicata. Nel caso della Rai questo scopo condiviso è, o dovrebbe essere, il concetto di “servizio pubblico”, che è quasi sempre riuscito ad ammortizzare, almeno in parte, l’invadenza e l’arroganza dei partiti politici. Quasi sempre. Ma non sempre.

Già accadde sotto Berlusconi che questo concetto fosse calpestato, e la testa di Enzo Biagi, con il contorno di quelle di Santoro e Luttazzi, fosse consegnata su un vassoio al padrone dell’azienda concorrente, divenuto nel frattempo capo del governo, e dunque doppiamente gratificato: sia dalla censura politica a suo vantaggio, sia dal colpo inferto alla Rai. Con tanto di suoi vassalli ficcati in Rai a brigare su palinsesti e organigrammi, come se fosse la Toyota a nominare il management di Stellantis, o viceversa. In un Paese con gli occhi aperti di quello avrebbe dovuto occuparsi la magistratura, altro che cene eleganti.

Qui siamo a un remake in chiave romanesca, la cosiddetta narrazione meloniana che pretende spazio nella televisione pubblica avendone già parecchio, e da parecchio; ma è così gracile, così pavida da non sopportare che le proprie parole, le proprie facce e il proprio ristretto circondario possano subire interferenze. Però c’è una differenza non da poco. Questa volta è il “nemico interno” che se ne va, nonostante quarant’anni di Rai e una sfilza di successi televisivi che hanno fatto la storia della televisione pubblica. La Rai – in teoria la sua azienda – non gli ha fatto nessuna proposta di rinnovo. A partire dall’amministratore delegato uscente (molto uscente) Fuortes, nessuno in quell’azienda ha fatto un solo passo perché il conduttore di una trasmissione in ottima salute, fonte di grandi introiti pubblicitari, rimanesse.

In termini strettamente aziendali, l’autolesionismo è così evidente da rendere ancora più ovvio che NON sono i termini aziendali a fare e disfare i palinsesti alla Rai. Non i conti economici, non i bilanci, non la passione professionale, che rimane confinata a chi lavora in studio, a chi la televisione la fa concretamente. A muovere le pedine in Rai sono gli interessi di partito, punto. Il committente di chi governa la Rai, con rarissime eccezioni (i Professori, Campo Dall’Orto che fu una delle poche ottime idee di Renzi e difatti se la rimangiò, qualche dirigente appassionato del prodotto) non è l’azienda. Non è la Rai. Sono i leader politici abituati a convocare telecamera e microfono sottocasa per rilasciare dichiarazioni che interessano solo a loro. Convinti che “servizio pubblico” sia garantirsi un siparietto breve nei telegiornali, uno più lungo nei talk-show, possibilmente leggendo prima le domande – perché in genere non sono bravi a fare televisione.

Fabio Fazio ha fatto benissimo ad andarsene – anche per una questione di dignità professionale. Non si rimane a disposizione di chi dovrebbe essere, allo stesso modo, a tua disposizione, come avviene in un rapporto sano tra editore e artista, tra editore e giornalista. È una questione – anche – di modi. Di buona educazione. A Discovery troverà un pubblico ringiovanito e un ambiente nel quale si parla del prodotto, del lavoro da fare, non si compulsano ogni mezz’ora gli smartphone per sapere che cosa hanno deciso a Roma, o per leggere dichiarazioni di politici che da una vita parlano di televisione senza saperne un accidente, spesso con una volgarità (Salvini) che illudendosi di definire altri, definisce solamente il mittente.

Da suo amico di lunghissima data è da due mesi che suggerivo caldamente a Fabio di levare il disturbo. Il lavoro – per chi lavora – è troppo importante per vederlo maneggiare dall’ultimo arrivato. Ci siamo conosciuti più di trent’anni fa alla Festa di Cuore, a Montecchio, lui giovanissimo io quasi. Posso e devo aggiungere che, fatto cento il lavoro di Fabio Fazio, il valore aggiunto dalla politica è zero. Lo ripeto: zero. La materia prima della sua carriera televisiva è esclusivamente il suo talento e il suo lavoro. Non ha debiti politici. Solo meriti professionali.

Infine una necessaria nota personale (si rimane comunque in tema). Mi ritrovo incluso in liste di “epurati Rai”, vorrei rassicurare i pochi interessati: non posso essere epurato perché non ho alcun contratto con la Rai, sono come Nino Frassica e il Mago Forrest, un libero professionista, quando Fabio mi chiama vado volentieri, se non mi chiama sto volentieri a casa. Il mio capo è lui, il mio datore di lavoro in televisione è la casa di produzione di Che tempo che fa, che si chiama Lofficina. Lo sarà anche l’anno prossimo (se Fabio vorrà ancora Frassica, il Mago Forrest e me), in onda su altre reti. Non sono autore della trasmissione dal 2015, basterebbe leggere i titoli di testa per saperlo (si chiama “verifica delle fonti”, è facile, bastano pochi secondi). La televisione è una fabbrica. Per parlarne sarebbe meglio conoscerla.