LA “REVISIONE” PER OLINDO E ROSA – Il procuratore Tarfusser fa ripartire il circo parlando di “errore giudiziario”. Buttando all’aria prove, testimonianze e perfino le confessioni. L’abisso degli assassini l’ho visto, non si riscrive la storia […]

(DI PINO CORRIAS – Il Fatto Quotidiano) – Facile perderci la testa e la pazienza in questo permanente bagno di sangue, furbizie e chiacchiere. Ma meno male che le suggestioni non fanno una prova.

Neppure se ripetute all’infinito per conto degli imperturbabili Olindo Romano e Rosa Bazzi, quelli della strage di Erba, che stanno sempre là, in effigie, spalla a spalla nella gabbia degli imputati, Tribunale di Como, persino la tv giapponese a registrare l’abisso della loro storia di coppia invisibile al mondo, ma che è stata capace di assaltare con la spranga e di scannare con il coltello, tre donne e un bambino di due anni, Raffaella Castagna, il figlio Youssef, la nonna Paola Galli, la vicina di casa Valeria Cherubini. Per poi cancellarli con il fuoco. Era l’11 dicembre 2006. Palazzina di silenzi e nebbia. Dove da allora non smette di sgocciolare il sangue della strage e l’inchiostro di chi vorrebbe riscriverla.

A questo giro lo fa addirittura un procuratore generale, il sostituto Cuno Tarfusser, di Milano, che chiede la revisione del processo maneggiando la stessa prosa della difesa, lo stesso corredo di prove trasformate con un oplà televisivo in dubbi moltiplicati da infinite illazioni. E meno male che il sostituto Tarfusser dice al Corriere a proposito dei suoi dubbi: “A me importa il merito, non il circo mediatico”. Visto che grazie a lui ha appena riacceso le sue luci, la sua musica e le sue ruote panoramiche per il felice pubblico, un po’ meno per i familiari di quel massacro che tornano nel gorgo.

Innocenti! Innocenti! Non valgono più le confessioni videoregistrate di Olindo e Rosa piene di odiosi dettagli, perché sono “false confessioni acquiescenti”. Non vale più la goccia di sangue trovata sull’auto di Olindo perché “trasuda criticità”, qualunque cosa voglia dire. Non vale più il riconoscimento del sopravvissuto, il vicino di casa Mario Frigerio, che in aula identifica Olindo come il suo aggressore e grida: “Vergognati, assassino!” perché è frutto di “falsa memoria”, anzi di “memoria indotta”.

Lode alla difesa per la sua rocciosa costanza che dai giorni della sentenza definitiva, 3 ottobre 2011, pena massima dell’ergastolo alla coppia specchiante, ha chiesto una volta, due volte, tre volte, la revisione del processo per l’intero decennio successivo. Lo ha fatto per inattendibilità delle confessioni ritrattate in aula. Per insussistenza delle prove. Per clamorose novità probatorie. Per “40 motivi di legittimità”. Poi, addirittura, “per 234 incongruenze”, non una di meno, non una di più, che falsificano le indagini, le confessioni, i processi, tutto.

Un vero peccato per le 999 congruenze che nel frattempo hanno trascurato. Le quali (invece) hanno agevolmente convinto prima i carabinieri, poi i giudici di primo, di secondo e di terzo grado. Tutti persuasi di avere risolto il labirinto (anche psichiatrico) che armò la mano di Olindo e Rosa (i poveri del piano terra) contro i vicini di casa (i ricchi del piano di sopra) spinti da un odio a lungo covato, diventato furore.

È vero, esistono gli errori giudiziari, ci mancherebbe. Ma mai se n’è visto uno in presenza della confessione circostanziata degli imputati. Mai con un testimone oculare che conferma l’identità di chi gli ha tagliato la gola senza riuscire a ucciderlo. Mai con un alibi così sconclusionato come quello allestito da Olindo e Rosa, lo scontrino del McDonald’s di Como che avrebbe dovuto collocarli altrove all’ora (sbagliata) del delitto.

La difesa ha diritto di inseguire ombre, congetture, persino le più trascurabili incrinature di un processo se serve agli assistiti, anche a negare l’evidenza. Benissimo. Ma il procuratore? Possibile che anche lui faccia finta di non vedere quello che sta in primo piano in ogni delitto: il movente? E cioè l’ingranaggio che muove il veleno del cuore e le armi dell’omicidio, l’odio contro Raffaella Castagna, “la ricca bastarda” che abita sopra di loro. L’odio per “la famiglia potente e prepotente” che la difende. L’odio per “il marito negro”, Azouz Marzuk, in Tunisia, la notte della strage, che spaventa Rosa “perché ha passato la linea”, è “entrato nel mio mondo”, la ossessiona con “la sua puzza che mi sento addosso”. Possibile?

Ero arrivato a Erba una settimana dopo gli arresti per raccontare la voragine aperta da quel multiplo delitto in quella silenziosa e ricca provincia fatta di cento paesi, trasformati in una città infinita, labirinto di superstrade, centri commerciali e vite standard. Ci sono rimasto per mesi. A campionare paure e solitudini di quel collettivo spaesamento. Raccontare i fondali emersi dal dopo strage, l’omertà, i rancori, Azouz che si era messo a fare l’ospite da pizzeria ingaggiato da Lele Mora, e si era venduto l’esclusiva del funerale di moglie e figlio a Fabrizio Corona. Ma specialmente a ricostruire la vita di Olindo, il netturbino, e Rosa, la donna delle pulizie, protetti dalle quattro pareti di cemento che si erano fabbricati contro il mondo. E che il mondo del piano di sopra aveva violato. Confessò Olindo: “La Raffaella è arrivata tre mesi dopo di noi. Prima con un’amica, poi con una decina di extracomunitari, negri. Ci passavano dentro tutti i tossici di piazza Mercato e io un sacco di volte chiamavo i carabinieri. Niente, non succedeva mai niente. Così abbiamo capito che avevamo solo due alternative, o andarcene, o farli fuori”.

E poi: “Non potevamo più vivere. Una volta era la storia che ci hanno tirato un vaso di fiori. Due era che la Raffaella ha buttato all’aria lo stendino con la biancheria, tre che il marito ha aggredito mia moglie. Quattro, questa storia della denuncia contro di noi, che tanto lo sapevamo che sarebbero arrivati a processo con quatto o cinque testimoni comprati”. Era il processo per la denuncia di Raffaella che avevano aggredito nel cortile di casa e che sarebbe cominciato il 13 dicembre. Per questo decidono di agire prima, basta staccare la luce e salire due rampe di scale: “Ci avevamo provato altre due volte, quella sera andò bene”.

Uno dei mille tasselli del movente me lo raccontò in caserma il maresciallo di Canzo, Salvatore Melchiorre: “La telefonata arrivò ai miei ragazzi. C’era questa signora che disse: chiamo da un treno, sto arrivando alla stazione di Asso, ci sono due tizi, marito e moglie, i miei vicini di casa, che mi seguono in macchina da due stazioni, mi minacciano, ho paura, vogliono farmi del male. La signora si chiama Raffella Castagna. Non ho uomini. Chiedo una pattuglia ai vigili. I vigili fermano questa Seat grigia: patente, libretto, li identifichiamo. Che fate? Dove andate? Non è che per caso state minacciando qualcuno? Olindo abbozza. Rosa scende come una pantera e comincia a sbraitare: quella puttana è una bugiarda! Noi abbiamo il diritto di andare dove cazzo ci pare, siamo liberi!”. Mancavano pochi giorni alla strage. Mai più liberi da allora, per colpa di quell’odio. E di tutte le bugie a seguire.