(Giuseppe Di Maio) – E’ unanime la condanna dell’inerzia e della remissività italiana di fronte alla contestazione violenta dei francesi, e ci si domanda da più parti perché non ci ribelliamo all’ingiustizia e agli abusi che la politica ci infligge da decenni. Sopra le invettive e le ingiurie rituali contro i connazionali spunta il carattere italico alimentato da una radice antica che assorbe l’umore dei secoli passati in condizioni difficili. Senza tema di smentite la natura italiana diffida della propria classe dirigente, il più delle volte straniera, nemica, a volte persino chiamata apposta a fare l’arbitro delle lotte intestine. Diffida tanto del forestiero di cui non decifra le intenzioni, quanto del vicino di casa di cui conosce bene le ambizioni e le capacità di difesa. E’ inadatta ad avvalersi della democrazia che esprime sempre una volontà contraria ai suoi interessi.

Dicono che è perché non siamo una nazione, ma un collage di popoli affiancati e sovrapposti in questo bel paese, che è principalmente “espressione geografica”. Sarà, ma allora siamo una “non nazione” dal carattere ben definito che da un sud spietatamente familistico si sviluppa quasi identico in un nord più sensibile alla prossimità e alla stirpe. In Italia la vera avversaria della democrazia e di tutta la dimensione pubblica è la lotta di classe. Al Sud le vicende economiche, gli aspetti della vita civile, il senso stesso della vita, sono di frequente sottomessi all’edificazione di una considerazione sociale, di un rispetto, calcolato con estremo puntiglio e ferocia. Al Nord la via della libertà e dell’emancipazione passa per il denaro, per la misura delle proprie finanze, non importa in quale modo acquisite. Ma sia al Nord che al Sud siamo stupidamente reazionari e meschinamente conservatori, consideriamo il nostro prossimo un nemico, invece che un’opportunità di progresso.

L’arte di apparire è un’arte tutta italiana. La cagoneria, anche. Per paura del giudizio altrui ci riduciamo a sfoggiare e millantare possibilità economiche e, pur di non mostrare le nostre miserie, siamo capaci di impiccarci silenziosi in un garage. L’incapacità di distinguere tra meriti e colpe, di giudicare la nostra condizione economica col metro privato o con quello politico, ci asservisce alla vergogna. Non vogliamo più andare in strada a protestare contro i veri autori del nostro destino assieme al vicino di casa, ma preferiamo continuare a mentire a costui sul nostro stato. Siamo prigionieri delle correnti mitologie, stupide cose che ci ha instillato il nemico dominante, sussurrandoci di continuo che tutti i servi possono arricchire e diventare padroni e, se non lo saranno, è solo perché sono colpevoli e imbelli.