Cosa ci dice il ritiro russo da Kherson? Rende evidente che sbagliava chi sosteneva a marzo di non volere l’invio delle armi all’Ucraina, perché avrebbe aumentato solo i morti, senza cambiare le sorti della guerra. “Alla fine – dicevano in sostanza alcuni commentatori – la Russia sventrerà il Paese […]

(DI MARCO LILLO E M. TRAV. – Il Fatto Quotidiano) – Cosa ci dice il ritiro russo da Kherson? Rende evidente che sbagliava chi sosteneva a marzo di non volere l’invio delle armi all’Ucraina, perché avrebbe aumentato solo i morti, senza cambiare le sorti della guerra.

“Alla fine – dicevano in sostanza alcuni commentatori – la Russia sventrerà il Paese e spingerà Zelensky ad accettare condizioni ancora più severe. Tanto vale non inviare le armi e indurlo ad accettare subito condizioni migliori di quelle che dovrebbe accettare domani, dopo la sconfitta certa”. Questo argomento si è dimostrato fallace, perché basato su analisi militari errate. Chi prevedeva una rapida conquista dell’Ucraina, da Kharkiv a Odessa, passando per Kherson, sbagliava.

All’inizio della guerra, con una posizione opposta alla linea del Fatto Quotidiano, scrivevo: “La risposta più sensata contro la Russia è quella data dal governo Draghi: sì all’invio di armi” e aggiungevo però che lo scopo di questo sforzo doveva essere “convincere Putin a sedersi a un tavolo, che rifletterà le posizioni raggiunte in quel momento sul campo dalle due parti”. Anche perché la Costituzione non prevede la guerra, ma il negoziato come soluzione ai conflitti.

Ero sicuro allora che l’aiuto militare a Kiev fosse giusto, non ero certo che fosse anche sufficiente per fermare i russi. L’Ucraina andava aiutata con le armi perché (con tutti i suoi difetti, primo tra tutti, la forte presenza della destra neofascista) era e resta un Paese democratico invaso da un regime autocratico e violento che non sopportava la sua scelta filo-occidentale.

Sul piano dei valori non c’era e non c’è dubbio alcuno sulla scelta da fare. Non era scontato però che l’Ucraina avesse la forza morale e militare per resistere. Chi ha suggerito allora di non inviare le armi, prevedendo un cedimento di Kiev, dovrebbe ammettere l’errore: sarebbe un atto di rispetto verso l’eroismo degli ucraini e di onestà intellettuale utile a bonificare il dibattito italiano dalle prese di posizione faziose che non tengono conto dei fatti.

Anche sul fronte opposto dei fautori delle armi, bisognerebbe smettere i panni dei crociati del bene occidentale contro il nuovo Hitler, per ammettere le enormi responsabilità degli Stati Uniti, della Nato e – in misura minore – dell’Italia, nella fase precedente all’invasione.

I sostenitori dell’invio delle armi a oltranza, invece, non vogliono parlare delle ragioni profonde della guerra e tacciano di putinismo chiunque osa dire, come Papa Francesco, che “l’abbaiare alla porta della Russia” ha peggiorato la situazione. Nessuno è disposto a discutere delle condizioni e delle volontà dei russofoni nel Donbass. Nessuno è disposto ad ammettere una parte di ragione nell’argomento della controparte in un dibattito dominato dal narcisismo utile solo per fare ascolto nei talk-show e non per informare correttamente.

Guardando avanti, invece, cosa ci dice la ritirata russa da Kherson sul futuro? Ci dice che questo è il momento per spingere l’Ucraina (e la Russia) a trattare una pace possibile, anche se imperfetta. Una via di uscita possibile è quella proposta, sotto forma di sondaggio Twitter, dal furbo Elon Musk. Contempla punti indigesti per Biden e Zelensky come la cessione definitiva della Crimea e il referendum (sotto il controllo Onu) nel Donbass con la vittoria probabile dei filorussi. Si arriverebbe a una pace armata tra due blocchi dietro a una nuova cortina di ferro lungo il Dnipro. Non sarebbe la situazione ideale. Dopo circa 100 mila morti e milioni di sfollati, entrambe le parti dovrebbero accettare di cedere terreno rispetto alle loro pretese. Però sarebbe comunque uno scenario migliore della guerra a oltranza.

Non è vero che l’Italia non conta nulla e quindi non ha responsabilità. Assieme alla Germania e alla Francia potrebbe spingere l’Unione europea a differenziare nettamente la sua posizione dagli Stati Uniti. Dopo quasi nove mesi di guerra, è giusto continuare ad aiutare militarmente gli ucraini, condizionando però l’invio delle armi a Kiev a una ferma richiesta di andare a trattare davvero.

Chi invece spinge per un appoggio a Kiev senza condizioni, fino a quando l’ultimo soldato russo non lascerà la Crimea, deve porsi due domande: cosa accadrà dopo la sconfitta militare dei russi in una guerra convenzionale? E poi, chi verrà al posto di Putin in caso di ribaltone a Mosca?

Siamo sicuri che, dopo la vittoria delle forze filo-Nato, si profilino l’Ucraina liberata e la democrazia a Mosca? O è più probabile che a Mosca arrivi qualcuno più determinato di Putin a sfruttare l’uso delle armi nucleari facendo leva sulla frustrazione del popolo russo dopo l’ennesima sconfitta nel Donbass? Basta la domanda per suggerire prudenza a chi preferisce la guerra a oltranza a una pace imperfetta.

Caro Marco, la guerra purtroppo non è finita e le alterne vicende sul campo non autorizzano all’ottimismo. Malgrado la controffensiva ucraina nel suo massimo sforzo, i russi controllano quasi interamente le 4 regioni occupate a Est e Sud Est. Confrontando risultati così modesti con l’altissimo prezzo pagato (150 mila morti, per tacere dei profughi, del disastro economico mondiale e del rischio nucleare), ciascuno valuta in base alla sua coscienza se ne sia valsa la pena. Io resto convinto che un negoziato subito dopo l’aggressione russa sarebbe stato meno oneroso per Kiev di quello che ora si spera partirà, e avrebbe evitato decine di migliaia di morti e molti “danni collaterali”. Infine: il Fatto si è sempre opposto all’invio di armi perché è incompatibile con l’articolo 11 della Costituzione (la nostra: gli altri Paesi fanno ciò che credono), come ci spiegò la nostra compianta Lorenza Carlassare.