(Di Daniela Sessa – civiltadellemacchine.it) – “Sapeva i nomi di tutte le stelle”. Queste parole chiudono in un cerchio il film “Dante” di Pupi Avati, ispirato al “Trattatello in laude di Dante” scritto da Giovanni Boccaccio e uscito nelle sale il 29 settembre. Dante conosceva le stelle perché figlio di quella verticalità medioevale in cui tutto precipitava in picchiata verso il basso o librava dritto fino al cielo, fino a Dio alfine di tutti i disii. Salì nel cielo pieno delle sue stelle, per scrivere quello che mai non fue detto d’alcuna che con uno sguardo e un saluto attesi nove anni lo infiammò di amore e poesia. Dall’aere sanza stelle seguendo la costellazione dei Pesci e quella mattutina dell’Ariete, mentre Venere gli faceva da cometa fino a lì dove si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova. Sommo Dante, per aver tradotto in poesia il dolore, l’ingiustizia e la morte. L’amore, quello di Beatrice e quello che move ‘l sole e l’altre stelle. Questo è il Dante raccontato da Avati, il poeta preso alle origini della poesia, come se egli stesso fosse un elemento del cosmo sorpreso nel momento in cui si forma. Come se fosse una costellazione, di quelle che arrivano dallo spazio più misterioso e profondo fissate nelle immagini della più straordinaria tecnologia. 


Ma Dante è figlio di quel Medioevo prescientifico, che la prevalente vulgata disse buio, orbo di ragione e selvaggio per il sangue sprizzato dalle cotte dei soldati di Campaldino e di Tolkien e per la fede corrotta in superstizione, eresia e brama di potere. Quel Medioevo che Jacques Le Goff, invece, volle “luminoso, razionale”, scandalizzandoci come ha scritto Franco Cardini. Il film di Pupi Avati rende omaggio sia alla vulgata sia a Le Goff. Il viaggio di Giovanni Boccaccio per consegnare a suor Beatrice, la figlia monacata del Sommo, i dieci fiorini di risarcimento che Firenze assegnò troppo tardi a Dante, è un viaggio infernale in mezzo alle malattie, alla bruttezza, alla povertà, alla celebrazione della morte. Da questo scenario, olezzante, che ricorda le pagine di “Profumo” di Patrick Süskind, emergono i versi dalle Rime e da Vita nova, lo sguardo giovane del poeta e le scene della Commedia in omaggio alla luminosità evocata dal medievalista e culminata nella pioggia di stelle in chiusura del film. Un film estetico nelle intenzioni e nella realizzazione delle immagini in digitale: il climax è far parlare l’affresco di Andrea di Bonaiuto conservato nel Cappellone degli Spagnoli a Firenze.

La Chiesa militante e trionfante, Andrea di Bonaiuto

La tecnologia digitale restituisce alla scienza il film che, nel suo eccesso estetizzante, alla scienza pare sottrarsi. Eppure di scienza Dante fu impregnato. Studiò le arti del quadrivio e non è un caso se la numerologia, le metafore del geòmetra e l’architettura del suo universo si risolvano in musica. Non è un caso nemmeno il lessico figurato della matematica: si conti quante volte il termine “assioma” ricorre nella Commedia. Dante scrisse il trattato Quaestio de aqua et terra per spiegare la teoria geocentrica, disseminò il poema divino di conoscenze geologiche (la sua tettonica delle rocce infernali entusiasmò Robert L. Folk), mediche (scrisse del sangue digesto veicolo di malattie ben prima di William Harvey), matematiche, fisiche (la teoria dei raggi riflessi). Astronomiche: l’universo tridimensionale e curvo per qualche studioso anticipa le teorie di Einstein (si legga anche per questo punto l’interessante analisi di Claudia Sorcini).  La biografia dantesca dell’umanista Leonardo Bruni svela che “per istudio di filosofia, teologia, astrologia ed arismetica e geometria, per lezioni di storie, per revoluzione di molti e varii libri, vigilando e sudando nelli studii, acquistò la scienza la quale dovea ornare ed esplicare con li suoi versi”.

Esiste un Dante scienziato che dia conto della sua conoscenza del nome delle stelle? La retorica contenuta nella domanda non esime dal citare il secondo canto del Paradiso in cui Dante spiega la teoria delle macchie lunari con l’esperimento dei tre specchi “Ben che nel quanto tanto non si stenda/la vista più lontana, lì vedrai /come convien ch’igualmente risplenda”, o di ricordare il folle volo di Ulisse accompagnato dalle stelle del polo australe. L’uscita dell’Inferno e il “riveder le stelle” avvengono con Venere congiunta alla costellazione dei Pesci, con le quattro anonime stelle del polo antartico e l’Orsa Maggiore dietro la linea dell’orizzonte. Dante confonde pianeti e stelle, ne fa immagini morali e non poteva essere altrimenti: la cultura medioevale è dominata dalla Scolastica, dall’aristotelismo, dalla identificazione tra astronomia e astrologia, dal dogmatismo, dall’identificazione tra Natura e Creazione.
Un enciclopedismo sincretico che cala Dante nel suo tempo. Ma di quel tempo Dante è pure eccezione perché fa poesia persino della scienza. Deriva da qui l’incanto eterno davanti gli ostici calcoli in versi della posizione del meridiano di Cadice nel ventisettesimo canto del Paradiso. O la traiettoria degli sguardi tra Dante e Beatrice, resi meravigliosamente nel film di Avati. Anzi non è concepibile la stessa Commedia senza la scienza.

Solo l’esattezza e la razionalità presiedono alla costruzione di un universo regolarmente squadernato sul multiplo dei numeri, sulla linea e il cerchio, sulla rotazione. Però, “all’alta fantasia qui mancò possa” e Dante si arrende di fronte alla dimostrazione della verità. Einstein avrebbe avuto nell’indimostrabilità di Dante, un alleato nella diatriba con il vescovo Lemaître sul ruolo di costante cosmologica che spiega l’espansione dell’Universo. Lemaître ebbe in questo supporto da Edwin Hubble, l’astronomo che gettò le basi per la formulazione del Big Bang e diede il nome al primo telescopio. Il primo che si è spinto oltre il cosmo e ha trasmesso le prime immagini delle nebulose stellari. Oggi grazie al modello avanzatissimo del James Webb Space Telescope guardiamo la luce delle stelle che i nostri occhi non possono reggere. Il telescopio è la nostra Beatrice. 
È un esercizio di letteratura pensare a cosa avrebbe scritto Dante se avesse visto le immagini delle galassie che arrivano dal cosmo o immaginare quale velocità di movimento avrebbe impresso al Primo Mobile se avesse letto i dati dell’IERS (International Earth Rotation and Reference Systems Service) sull’accelerazione -millesimi di secondo- della rotazione della Terra. Eppure, questo affascina al pari dei versi di Dante disseminati nel film di Avati. Al pari della poesia delle stelle di una scienziata lontanissima da Dante ma che delle stelle conosceva davvero il nome. Margherita Hack diceva che noi siamo il risultato dell’evoluzione stellare, delle reazioni nucleari nelle supernove. Siamo fatti di stelle. E di sogni, avrebbe aggiunto il Bardo.