(Giuseppe Di Maio) – Alla fine, considerata la legge elettorale vigente, ognuno di noi si è meravigliato della mancata coalizione PD-M5S, o dell’impossibilità di costituire il “campo largo”. Ma sbaglieremmo se volessimo imputare tutto alla stupidità politica di Enrico Letta e agli sgambetti del duo Renzi/Calenda. L’impraticabilità del progetto federativo progressista viene da lontano e segue le logiche che ci hanno accompagnato in questi ultimi 30 anni. E’ necessario dunque un veloce flashback.

La profonda ristrutturazione delle proposte politiche tradizionali nei primi anni ’90, seguita alla “Svolta della Bolognina” e a “Mani pulite”, fu un adeguamento alle trasformazioni della società italiana. Dopo la stagione demolitoria dei partiti novecenteschi e post bellici, erano restati il PDS, RC, la Margherita, l’UDC, FI, la Lega e Alleanza nazionale. Il susseguirsi di leggi elettorali maggioritarie imponevano le aggregazioni e gli scontri tattici nel campo moderato. L’asse politico delle destre (come avrebbe detto Fanfani) pendeva inesorabilmente oltre il centro dello schieramento, costringendo la sinistra a scavalcare le politiche dell’avversario. Ciò che capitò allora, fu un enorme vuoto di rappresentanza dal lato progressista che s’accrebbe ancor più con la creazione del PD, partitone a vocazione conservatrice e maggioritaria.

Due anni dopo, il disagio nell’elettorato di sinistra e i rigori della crisi economica portarono alla nascita del M5S. Ma anche il settore destro della politica di lì a poco ebbe la sua caporetto: la mancata risposta alla crisi e la tragedia dei numeri dissolsero la sua leadership che restò congelata per quasi un decennio. Il Movimento di Grillo, già ondivago e ideologicamente impreciso, ambì dunque a conquistare quei voti orfani di leader, operazione che nel 2013 riuscì. L’accelerazione della dialettica interna al Movimento successiva al voto del 2018 lo ha portato a più soluzioni di governo che lo hanno esposto a pericoli differenti. La Lega volle solo asciugare il suo elettorato, il PD volle estinguere del tutto la sua esistenza confondendone la missione col suo programma. Ancora maggiore è stata la torchiatura ideale del M5S durante il governo Draghi la cui partecipazione fu propiziata da un Grillo timoroso della marginalizzazione.

Ma ecco che la guida di Conte ha ordinato il campo dottrinale delle 5 stelle e lo ha definitivamente adattato alle ragioni del progressismo. E’ stato allora che il gruppo dirigente del PD si è sentito minacciato nella sua esistenza. Smascherate le sue contraddizioni tra idee e pratica politica, svelata la sua abusività in un’area elettorale, ha tentato di ricacciare il nemico/concorrente nell’insignificanza. Quella che si è aperta durante il governo Draghi è una lotta per l’egemonia e per la sopravvivenza tra il Movimento di Conte e i dirigenti della falsa sinistra. Perciò sono inutili le interpretazioni sul semi-successo dei 5S in queste politiche, che invece vanno spiegate col dilemma: guadagnare voti dall’astensione, o dal PD? E noi abbiamo scelto dal PD.