Mentre nel campionato di calcio di Serie A debutta un arbitro donna e Palazzo Chigi si appresta ad accogliere la prima premier della storia repubblicana, al Nazareno è arrivato l’arrotino. Dopo l’imprevedibile vittoria di Giorgia Meloni i dem […]

(di Silvia Truzzi – ilfattoquotidiano.it) – Mentre nel campionato di calcio di Serie A debutta un arbitro donna e Palazzo Chigi si appresta ad accogliere la prima premier della storia repubblicana, al Nazareno è arrivato l’arrotino. Dopo l’imprevedibile vittoria di Giorgia Meloni i dem corrono ai ripari. Prima di comprare il biglietto di ritorno per Parigi, Enrico Letta ha fatto testamento e in un legato avvelenato (chissà a quanti Bonaccini sarà andato di traverso) avrebbe espresso tra le sue ultime volontà quella di vedere una signora al posto da lui tanto efficacemente occupato fino alla disfatta di domenica. Questo patronage è un po’ fastidioso (non solo per la pesante eredità) e sembra proprio che l’imperativo femminile sia un maldestro tentativo di non sfigurare di fronte alla destra. È in parte una conquista, in parte una sconfitta. Sconfitta perché arriva solo come reazione al partito della reazione; conquista perché, con le buone o con le cattive, bisogna pure sfondare il famoso tetto di cristallo. “Soluzione donna”, il prodotto assicurativo che forse garantirà la sopravvivenza ai dem, ha già diverse pretendenti. La prima ad autocandidarsi è stata Paola De Micheli, ex ministro del governo Conte-2, che nei lunghi anni di militanza ha attraversato un po’ tutte le correnti (bersaniana, lettiana, zingarettiana). Il nome forte però è quello di Elly Schlein, ex europarlamentare, oggi vicepresidente dell’Emilia Romagna. L’anti Giorgia è di sinistra (infatti non ha la tessera del Pd) e, accanto a Letta, ha infiammato piazza del Popolo (non proprio la più adatta per la chiusura della campagna elettorale del partito delle élite) con la frase “Sono una donna. Amo un’altra donna e non sono una madre, ma non per questo sono meno donna”. In vista del congresso marzolino, tra “l’analisi di fase” e la “necessità di fare sintesi” – la ditta cambia più facilmente elettori che linguaggi – bisognerà capire che declinazione dare alla parola identità: politica o di genere? Quale peserà di più?

Il rischio di una donna in quanto donna (che potremmo chiamare “rischio Cartabia”) è quello di fare un’operazione di mero marketing, con esiti incerti: vedete, anche noi abbiamo la nostra ragazza al comando. Soluzione sconsigliabile che non risolverebbe il vero problema di un partito svuotato e smarrito, che già in passato ha usato le donne come bandierina: Renzi insediò un governo con lo stesso numero di ministri e ministre, salvo poi sostituirne tre (Mogherini, Guidi, Lanzetta) con colleghi maschi. Anche il giochino delle pluricandidature previsto dal Rosatellum con rigorosa alternanza di genere è stato usato al contrario (nel 2018 e, sembra, a questo giro), anche con la compiacenza delle donne (non solo del Pd, naturalmente). Per aggirare la regola della parità di genere è sufficiente candidare una donna che corre in un collegio sicuro all’uninominale capolista in cinque diversi collegi plurinominali, perché lasci il suo posto al secondo del listino proporzionale (maschio). Non conosciamo ancora la composizione definitiva del parlamento (mancano 109 posti da assegnare), sappiamo però che dei 491 deputati e senatori già sicuri, le donne risultano 104 alla Camera contro 327 uomini, al Senato 60 contro 102: il problema della rappresentanza femminile è lontanissimo dall’essere risolto. Non festeggeremo certo l’insediamento della destra post fascista a Palazzo Chigi, ma quello della prima premier, giunta fin qui grazie alla forza della sua leadership, sì. Augurandoci che il Pd riesca a eleggere una segretaria che non sia solo una figurina, sarà bene che le donne democratiche si convincano che non devono chiedere il permesso a colleghi che hanno, con tenace e virile prosopopea, sfasciato il partito.