“Questa volta non ci casco!”. Così suona ormai la risposta diffusa alla domanda sul voto alle prossime elezioni del 25 settembre. Mentre i sondaggi misurano il più o il meno del gradimento a cui giungono i partiti, il termometro politico trascura il fronte dell’astensione […]

(DI DONATELLA DI CESARE – Il Fatto Quotidiano) – “Questa volta non ci casco!”. Così suona ormai la risposta diffusa alla domanda sul voto alle prossime elezioni del 25 settembre. Mentre i sondaggi misurano il più o il meno del gradimento a cui giungono i partiti, il termometro politico trascura il fronte dell’astensione, tema che nei dibattiti pubblici passa in genere sotto silenzio. D’altronde chi si astiene non ha rappresentanti e portavoce. L’appello al voto arriva in queste ore da Mario Draghi che cita Václav Havel per dire che non c’è democrazia se i cittadini non partecipano. Ma basta girare nel Paese per osservare una vera e propria smobilitazione elettorale.

Si sa che negli ultimi decenni, più precisamente dalla fine degli anni Ottanta, l’astensione è cresciuta ovunque nelle democrazie europee. Valga per tutti il caso emblematico della Francia, patria della democrazia moderna, dove il numero di chi non vota è aumentato in modo esponenziale soprattutto nell’ultimo periodo. È raro che si riscontrino tendenze inverse. La partecipazione non si amplia e non si consolida. Si dovrebbe allora accettare una “democrazia dell’astensione”? E il fenomeno non intacca dal profondo il sistema politico? Se lo chiedono filosofi e politologi che analizzano le “malattie croniche” delle democrazie occidentali.

Da noi le cose non vanno meglio: si paventa un crollo senza precedenti del numero dei votanti con percentuali che sfiorano addirittura il 40 per cento. Mentre i leader dei partiti, tra Letta e Meloni, sono impegnati in battibecchi semipersonali, risse di piccolo cabotaggio, che accenderanno forse l’interesse di qualche loro elettore, i più sono indecisi, confusi, disorientati. Non hanno ben capito che cosa è successo da gennaio a questa parte. L’Italia usciva dall’apnea pandemica, ricominciava a respirare grazie alla speranza di una ripresa. Poi improvvisamente tutto è cambiato. La guerra, le armi, lo scenario internazionale, l’atlantismo, le sanzioni, il gas, la crisi energetica… i razionamenti? La narrazione è frammentaria, lacunosa, a tratti incomprensibile, certo non condivisa. Difficile trovare un filo in una matassa caotica di eventi che appaiono assurdi e inconcepibili. Poi la caduta del governo Draghi e una campagna elettorale, in piena estate, tra mancate alleanze e voltafaccia sensazionali. Non c’è da meravigliarsi se molti elettori si sentano esclusi. Immaginare di conquistarli l’ultimo giorno con qualche slogan estemporaneo, o con uno scontro mediatico montato a bella posta, non è solo un abbaglio grottesco, ma anche, in certo modo, un affronto. Dove non c’è apertura e dialogo, dove non c’è una narrazione condivisa (che non vuol dire accordo) sia nei problemi complessi sia nelle prospettive future, non ci si può aspettare il voto.

Sbrigativamente si ricorre alla parola fuorviante “disaffezione” per indicare un fenomeno gravissimo: la politica ha perso valore al punto da non essere più percepita come parte costitutiva dell’esistenza umana. Ciascuno bada a sé, è consegnato a se stesso. La politica non pare più neppure in grado di offrire un riparo per i rischi a cui si è esposti e, anzi, può essere vista a sua volta solo come una minaccia. La separazione tra politica ed esistenza diventa un baratro in particolare fra i giovani, queste figure spettrali dello spazio pubblico italiano, che purtroppo diserteranno in gran parte le urne.

La destrutturazione dei partiti, il minor senso di appartenenza (soprattutto dei ceti popolari alla classe operaia), la perdita d’influenza della Chiesa, l’individualizzazione dei modi di vita sono alcune tra le cause dell’astensionismo. Il punto è che si alternano i governi, ma le leve del potere restano saldamente nelle mani degli stessi, alimentando il disincanto complottistico, mentre ogni vera alternativa, ogni possibilità di costruire qualcosa di nuovo, viene stigmatizzata e cancellata a priori. Di qui l’impotenza politica, il venir meno di ogni resistenza immaginativa.

Quelli che avrebbero più motivo di andare alle urne, i più fragili, i più poveri, i più emarginati, sono proprio quelli che non votano. E, al contrario, il nucleo costante dell’elettorato è costituito dalle categorie superiori, dai ceti più ricchi e più istruiti, dai maschi delle regioni del centro-nord. La crescita dell’astensione obbedisce a una logica implacabile: accentua le disuguaglianze economiche, sociali, demografiche. Se gli uni finiscono per essere estromessi, allontanati, dimenticati, gli altri sono sovrarappresentati. Il Parlamento eletto rischia di dare come non mai un’immagine falsata del Paese. Finora i partiti hanno fatto poco o nulla per arginare l’astensione. Le liste dei candidati, i soliti nomi, noti e arcinoti, avranno semmai contribuito allo sconforto e alla frustrazione. C’è da credere che poco cambierà nell’ultimo mese. Eppure, proprio questo dovrebbe essere il loro compito democratico.