Il premier dando le dimissioni ha calato un’arma difficile da disinnescare per gli avversari. Gli appelli risuonano unanimi da destra a sinistra, e al coro si uniscono anche i suoi oppositori

(LUCIA ANNUNZIATA – lastampa.it) – Il “Draghi resti” risuona dalle Alpi al Sud. La grande kermesse per convincerlo a restare non risparmia nessuno. In un impeto di indignazione, i sindaci firmatari di una petizione a sostegno del Premier hanno raggiunto quota mille, senza nessuna distinzione fra centro sinistra e centro destra. Le categorie si sono spese generosamente, specie quelle in prima linea da medici, infermieri e titolari di farmacie, fino ad addetti alla logistica, armatori e camionisti. Non è mancata la Confindustria, locale – Puglia Romagna, Assolombarda – e nazionale. Niente è più impetuoso in Italia dell’emozione di fronte a un addio, privato o pubblico che sia. Peccato che tali sentimenti vengano spesso dopo che l’irreparabile è accaduto, e che, specie in politica, come sta succedendo, le lacrime pubbliche siano spesso solo ed esclusivamente quelle del coccodrillo. Dov’erano infatti tutti i volenterosi di Draghi quando la situazione si andava logorando giorno per giorno? I mille sindaci che ora scuotono il capo, dov’erano mentre si discuteva di decreti che pure erano parte della fattura stessa della vita delle città – ad esempio, il reddito di cittadinanza o, nel caso specifico di questa storia, un termovalorizzatore? -. E la Confindustria non è la stessa che ancora alcuni giorni fa sosteneva che l’intervento del governo era di scarsa portata? E che dire di tutte le dichiarazioni che omaggiano l’ impegno pro-atlantista di cui Draghi è garante: forse hanno dimenticato che la questione delle armi all’Ucraina è stato il fuoco lento che ha bruciato la politica, fino all’incendio di questi ultimi giorni, dentro le vene di un buon settore politico, che non è solo il M5s? Come la mettiamo con l’equidistanza nei confronti di Mosca, i viaggi di pace ( tentati) per agganciare Putin, la critica alla Nato, e quella alla piattaforma anti-sociale di Draghi?

Ritorno qui sul tema di cui ho già scritto tre giorni fa su questa testata, cioè che la crisi non è solo fra Draghi e Conte (con il suo pezzo di M5s). Ma fra il Premier e una parte vasta, e nemmeno tanto nascosta, della sua maggioranza. Se di questa crisi non riusciamo a capire le radici, la dimensione, e di conseguenza la ramificazione, non avremo né una idea di cosa è successo, né tantomeno di come uscirne.

Mario Draghi pur entrato nella sua esperienza di governo accompagnato da lodi eccezionali, in realtà dal giorno primo è stato guardato con sospetto, con le dovute eccezioni, dall’intero sistema politico. Le eccezioni vanno qui nominate: la più rilevante in termini di peso e lealtà è quella di Letta, e poi quella di Berlusconi; ma in verità in tutti i partiti ha albergato una fronda anti- Draghi. Nel Pd, e nel suo campo largo, non si contano i nomi illustri che, in avversione a Draghi, hanno aiutato a costruire la figura di Conte addirittura come fondatore di un nuovo Ulivo. Nelle scelte del Pd non c’è nulla di sentimentale, ovvio: è un dato di fatto che senza recuperare un’alleanza con i 5S (o anche solo con i suoi resti) la carta geografica elettorale del Pd rimane disperatamente limitata ad alcune zone del Paese. Della fronda dentro la Lega è inutile parlare: il feeeling dei primi tempi del governo giallo-verde del 2018 è rimasto un asse permanente nella mente di Salvini e Conte. Il duo è stato sempre d’accordo durante il governo Draghi – dalla campagna per non eleggerlo al Quirinale (a dispetto degli accordi presi da Conte con il Pd – e di questo abbiamo sufficienti testimonianze da sfidare tutti i dinieghi dei protagonisti), al ritorno della comune passione pro-Mosca, fino alla manovra a tenaglia sulle richieste “sociali” di questi ultimi mesi, con operazioni diverse nelle motivazioni, ma unite nel volere un indebolimento del governo. A proposito di forze sociali: curiosamente, anche se più lentamente, lo “scontento” sui temi sociali ha finito con il far convergere i due grandi “distanti”, il sindacato di Landini e la confindustria di Carlo Bonomi. Ma tentazioni di fronda si sono avvertite sempre anche in Forza Italia, non fosse altro che per la voglia di andare a votare presto cui la crisi di Draghi ha sempre alluso; in questo rispecchiando nel profondo i desiderata dei Fratelli d’Italia.

Perché nei confronti di Draghi sia scattato questo rifiuto fin dall’inizio ci sono molte spiegazioni. Paura del controllo da parte di un sistema dei partiti in crisi, la sua presunta collocazione (massoneria, capitalismo globale); ma la risposta a questa domanda la daranno il libri di storia.

Quel che conta ora è capire che il precipitare della crisi non è il risultato dell’azione di un solo partito, o uno scontro fra due personalità, e nemmeno la storia, come pure si ama raccontare, di odi personali.

Sa dietro l’operazione Conte (leader per altro oggi dimezzato) non si fosse innescato un lavorio più ampio e più insistente, un economista che ha saputo tenere testa ai Tedeschi quando erano i padroni d’Europa non avrebbe reagito in maniera così radicale – perché di questo si tratta: Mario Draghi dando le dimissioni ha calato sul tavolo un’arma che ora è difficile disinnescare. Tanto più dopo il rifiuto di accettarle di Mattarella.

Una rottura di tale portata ha senso solo se ha a che fare, come per altro Draghi ha detto, con il fatto che «la maggioranza ha cambiato natura». La maggioranza; non il singolo Conte, ma la rete che dietro questo singolo ha operato.

Vista da questo punto di osservazione, le dimissioni acquistano un senso molto più chiaro. La rottura è stata fatta non certo per raccogliere prove di solidarietà (che ci si aspettava) ma, considerando la tempra di freddo giocatore lo scopo è stato quello di “stanare” i suoi avversari. Rompere cioè il velo di ipocrisia per cui tutti sono con Chigi e in fondo (eccetto pochi) nessuno lo è davvero. È la “doppia agenda” del sistema dei partiti attuali che è stato il vero “irritante” della guida del governo: la oscillazione fra le alate parole sull’interesse del Paese, dell’Europa, dell’equilibrio dei mercati e della pace da una parte; e dall’altra un’agenda individuale per ogni partito. Immaginiamo cosa possa essere stata per Draghi, nella situazione descritta, la contemplazione dell’ultima finanziaria in questo clima: una battaglia di campo larghissimo per una lista di microbiettivi per ogni partito già in campagna elettorale.

Arrivando così al “come se ne esce”, davvero si può immaginare, in questo contesto, la famosa “chiusura ordinata di legislatura”? È l’opzione che in queste ore catalizza le speranze dei più. Si spera che mercoledì si arrivi con i 5S di fatto azzerati dalla implosione interna, così che un Draghi, libero da questa equazione, accetti di continuare il governo con l’intesa di arrivare fino alla chiusura della finanziaria, e a un voto magari a quel punto magari a Marzo, cioè senza nomine ( ahi le nomine- portano sventura ogni volta che cadono a fine legislatura).

Ma se Draghi, secondo la nostra ipotesi, davvero punta a una operazione più ambiziosa, far venire a galla i suoi oppositori “sistemici” dentro i vari partiti, per ottenere le giuste condizioni per finire le cose che gli sono state affidate, non ha altra possibilità che quella di arrivare a un nuovo patto di maggioranza, battezzando o meno nei fatti un Draghi Bis.

Tuttavia, anche il tempo per tale soluzione sembra stia scorrendo via. Mentre scriviamo arriva il comunicato congiunto Salvini- Berlusconi che viene così sintetizzato: «M5s inaffidabili, escluso governo con loro». «Pronti a sottoporsi anche a brevissima scadenza al giudizio dei cittadini». Se a loro due si aggiunge l’intento sul voto della leader di FdI Meloni, la bilancia sembra già sbilanciata.

Al netto, ovvio, dell’incognita delle incognite: un intervento di tipo “miracoloso” del Presidente Mattarella.