Si fa presto a dire “populismo”. Mai come in questi giorni di incertezza, in cui il governo Draghi naviga in acque agitate, il termine riecheggia, usato nei toni più polemici, e diventa uno stigma. Molti editorialisti lo usano quasi come sinonimo […]

(DI DONATELLA DI CESARE – Il Fatto Quotidiano) – Si fa presto a dire “populismo”. Mai come in questi giorni di incertezza, in cui il governo Draghi naviga in acque agitate, il termine riecheggia, usato nei toni più polemici, e diventa uno stigma. Molti editorialisti lo usano quasi come sinonimo di “irresponsabilità” per indicare quelli del M5S che mostrano insofferenza verso l’esecutivo Draghi. Dall’altra parte ci sono non per caso i “governisti”, quelli che, alla Di Maio, si assumerebbero invece gli oneri del comando, le incombenze della gestione. E lo farebbero, per di più, in modo pragmatico, senza perdere tempo in critiche, cioè in chiacchiere (che ormai sembrano equiparate). Così il populismo non designa più solo quello stile politico accusato di argomenti grossolani, giudizi lapidari e facili rinvii al buon senso popolare. In questo tempo drammatico della nuova guerra d’Ucraina, sembra tacciato di essere portatore di indifferenza e menefreghismo, di sconsideratezza etica e leggerezza politica.

Le cose stanno ben diversamente. Se è vero che il populismo è una thin ideology, un’ideologia sottile che passa trasversalmente a destra e a sinistra, facendo da detonatore a esigenze diverse, è altrettanto vero che, proprio in questo periodo bellico, non si deve dimenticare da dove viene: dalla delusione democratica, dalla frustrazione del popolo che, messo da parte e ignorato, sente di non aver più presa sul proprio governo. Aveva ragione l’argentino Ernesto Laclau quando, già negli anni Settanta, sottolineava il potenziale democratico del populismo in grado di reintrodurre il conflitto in una vita politica svuotata da un consenso fantomatico.

Qui non si tratta di un “ciclo populista” che, non ancora esaurito, si abbatte come una calamità naturale fra le tante. Piuttosto siamo di fronte a un circolo vizioso che le forze democratiche avrebbero dovuto contribuire a spezzare e che invece, con questa guerra, hanno finito per alimentare ulteriormente. Più la politica del governo è elitaria, sprezzante, sorda a tutti i bisogni che vengono dal basso, più la frattura tra popolo ed élite è destinata ad acuirsi. Mai come ora questa frattura si è aggravata. Il popolo non vuole la guerra. Non sempre sa dire perché e spiegare i motivi. Ma ha fiutato fin da subito il pericolo e perciò non ha mai creduto a quella narrazione ufficiale e semplicistica che continua a essere contrabbandata, senza peraltro né efficacia né seguito. Man mano che passa il tempo emerge non solo l’assurdità di un tale conflitto nel contesto europeo, ma anche la folle sproporzione tra cause ed effetti. Non aver saputo sin dall’inizio mediare tra le parti per cercare un compromesso di pace fa sì che ora il popolo dovrà pagarne lo scotto tra inflazione, recessione, crisi energetica, ecc. Statisti responsabili, prudenti, moderati, avrebbero evitato tutto ciò. Al contrario, un neoliberismo avventurista ha condotto a scelte che ormai sembrano irreversibili. Chi è irresponsabile?

Tra i popoli europei ci sono differenze notevoli, sia per tradizione civile e politica, sia perché non tutti sono colpiti allo stesso modo. In Italia le ripercussioni saranno devastanti. E come non vuole la guerra, così il popolo non vuole pagare un prezzo altissimo – non perché sia indifferente, ma perché sa che le armi servono solo ad arricchire chi le fabbrica. Farsi carico di questo enorme disagio, dare voce a quei cinque milioni di poveri la cui vita da qui a poco peggiorerà, non significa essere populisti, né tanto meno sottrarsi agli oneri del governo. La responsabilità non è remissione né acquiescenza. O in questo Paese si ammette il dissenso oppure questa democrazia senza demos, senza popolo, finirà non solo per provocare l’astensione, ma per diventare il preludio a forme di governance ignote e inquietanti.

L’appello a fermare la guerra fa tutt’uno con la lotta alla povertà. Fa bene Maurizio Landini a non dimenticare questo nesso e ad articolarlo ogni volta a chiare lettere. Siamo entrati ormai in una sorta di limbo, un periodo di sospensione e incertezza che prelude all’esplosione che verrà – quella di un autunno che potrebbe cominciare già a fine estate. I governisti rischiano di andare a gambe all’aria lasciando dietro di sé le macerie della crisi economica ed energetica nonché il caos di un Paese dove i partiti hanno abdicato alle proprie funzioni in nome di una “unità” che non è mai parsa più fantasmatica e più pericolosa. Chi fa risuonare oggi la voce del popolo nei consessi e nelle istituzioni democratiche rende un servizio al Paese, media, intercede, ricompone, non senza fatica e travaglio, come sarebbe compito della politica responsabile. Meglio non chiamarlo a cuor leggero populismo.