Dopo quindici anni passati a fare il giornalista, e anche il politico, nel mondo della sinistra fu radicale, nel 2010 sono approdato al Fatto quotidiano. Grazie a Antonio Padellaro e Marco Travaglio mi sono reinvestito nel lavoro giornalistico […]

(DI SALVATORE CANNAVÒ – Il Fatto Quotidiano) – Dopo quindici anni passati a fare il giornalista, e anche il politico, nel mondo della sinistra fu radicale, nel 2010 sono approdato al Fatto quotidiano. Grazie a Antonio Padellaro e Marco Travaglio mi sono reinvestito nel lavoro giornalistico, dismettendo completamente la parentesi politica e ritrovando quella professione che ho amato fin quando ero ragazzo.

Nel ricominciare la professione tra i miei primi lavori c’è stato quello di editare, ogni settimana, una rubrica che allora Furio Colombo scriveva per il numero del lunedì. E così che ho iniziato a frequentarlo, al telefono, sottoponendogli i miei tagli “sartoriali”, come lui li definiva, o la correzione di qualche refuso. Il mio rapporto con questo grande giornalista italiano, anche lui un politico, è iniziato nel vivo della cucina redazionale e lì ho imparato ad apprezzarne la vasta conoscenza, la serietà, la gentilezza.

Per questa ragione non mi fa per nulla piacere leggere quello che ha scritto sul Fatto e poi nell’intervista all’Huffingpost dove lascia intendere che interromperà la collaborazione con il nostro giornale. Non mi fa piacere e spero che ci ripensi, che l’aut aut proposto, o me o Alessandro Orsini, possa essere accantonato come è giusto che sia.

Ma vale la pena sottolineare un aspetto che in questo scambio tra firme storiche del giornalismo rischia di rimanere sotto traccia: il Fatto quotidiano non è solo Orsini, le posizioni sulla guerra non si riducono a quella di questo professore di sociologia, piombato, senza che lui lo avesse previsto, nel dibattito quotidiano. Il Fatto è una rete di redattori che ha idee molto diverse, le espone regolarmente nelle riunioni giornaliere, quando ha voglia di renderle pubbliche lo fa liberamente e, nel caso della guerra, è un giornale che in larga parte si oppone alla linea interventista decisa dall’Italia e dall’Occidente.

Perché non è assolutamente possibile accettare questa polarizzazione “Zelensky santo-Putin diavolo” in cui è ricacciato il dibattito in corso. Che nel nostro caso si riduce anche alla diatriba Colombo-Orsini. Quasi un bipolarismo di ritorno proprio nel momento in cui quella polarizzazione mefitica ce l’eravamo lasciata alla spalle.

Dire no alla logica dell’intervento militare, fare le pulci a come la Nato e l’Italia stanno gestendo il conflitto non significa arruolarsi nel putinismo come tanta parte della stampa sta cercando di accreditare, coniando anche il termine umiliante e offensivo di Fatto putiniano. Troppo comodo cavarsela così, ridurre un dibattito complicato e articolato a questa variante semplicista. Anche una pacifista integrale come Cecilia Strada ha scritto che non se la sente di accettare la coppia “Zelensky come Gandhi” e dall’altra parte “eh, ma il battaglione Azov”, dando voce a uno stato d’animo ampiamente diffuso e condivisibile. La polarizzazione serve solo a schiacciare le posizioni in dissenso costringendole ad accettare la minestra della Nato oppure a saltare fuori dalla finestra insieme a Putin e a Orsini (ormai tacciato di essere il suo ambasciatore di fatto in Italia).

Ma questa polarizzazione non è figlia di chissà quale dabbenaggine o miopia, è il frutto di un preciso calcolo politico. Lo ha notato alcuni giorni fa Enrico Mentana che pure fa vanto di non invitare in tv nessuno che contesti il sostegno all’Ucraina. La guerra è trattata in Italia come l’occasione per un regolamento di conti politico. Contro un’Italia che, semplificando assai come fa la grande stampa, viene definita populista e che deve essere messa a tacere per sempre. Per comprimerla e zittirla la si descrive come un groviglio di putinismo, di no-vax, adepta delle false verità e dedita ai complotti. E pazienza se dentro ci sia di tutto: editorialiste di grande prestigio, filosofe, docenti strepitosi, grandi divulgatori, giornalisti. Anzi, queste figure sono costrette al silenzio, a seguito di aggressioni mediatiche, e tutto viene ricondotto alla sola faccia, resa impresentabile, del buon Orsini.

Non è un caso che gli attacchi e l’attenzione morbosa siano indirizzati soprattutto contro il nostro giornale e contro un certo mondo che vi si riconosce. Questo mondo ha sconvolto gli equilibri della grande “unità nazionale” nata nel 2013 dopo il terremoto 5 Stelle delle elezioni di allora, e da allora deve essere ricondotta alla normalizzazione. Dietro lo scontro sulla guerra ci sono valori, interpretazioni diverse, collocazioni e propensioni personali. Ma c’è anche questa grande resa dei conti politica. Sarebbe meglio non sottovalutarlo.