A Bruno Vespa bisogna pur riconoscere un talento visionario nel ridefinire i confini della televisione pubblica. L’ultima puntata di Porta a Porta, quella andata in onda giovedì sera, si candida a essere una pietra miliare della tv di Stato […]

(DI TOMMASO RODANO – Il Fatto Quotidiano) – A Bruno Vespa bisogna pur riconoscere un talento visionario nel ridefinire i confini della televisione pubblica. L’ultima puntata di Porta a Porta, quella andata in onda giovedì sera, si candida a essere una pietra miliare della tv di Stato applicata alla propaganda politica in tempo di guerra.

Ospiti d’onore, nel salotto del decano di Rai Uno, ci sono quattro donne. Sono mogli e fidanzate dei soldati di Azov, il battaglione criminale e nazista assediato a Mariupol. Qui siamo ben oltre la riabilitazione: con Vespa si approda nel campo dell’ammirazione aperta, della celebrazione convinta, dell’empatia commossa.

Nelle testimonianze di ovvia ammirazione delle loro donne, il soldato di Azov è un “uomo d’acciaio”, “d’onore”, “incredibilmente forte, fatto di pietra, pronto a resistere fino alla fine”; “incarna tutte le virtù possibili, non c’è neanche una persona che possa dire una parola brutta su di lui”. Nelle parole di Human Rights Watch e di altri osservatori indipendenti, invece, i soldati del reggimento nazista, che espongono orgogliosamente simboli del Reich, sono stati protagonisti di stupri, torture e altri crimini di guerra anche ai danni della popolazione civile, sin dall’inizio del conflitto in Donbass, nel 2014. Vespa, con la voce rotta dall’emozione, lo chiede una volta sola: “Cosa pensate di chi associa i vostri uomini al nazismo?”. Risponde Kateryna Prokopenko, moglie del comandante di Azov: “È propaganda russa. La Russia cerca di annientare e di screditare tutti gli eroi”. Poi va in onda anche il messaggio del marito Denys: “Facciamo appello alla società italiana. Lottiamo in difesa della nostra gente e del nostro territorio, ma abbiamo bisogno di assistenza”.

Ecco fatto: su Rai Uno gli ex paramilitari criminali diventano eroi che difendono Mariupol a nome di tutto l’Occidente, sacrificando la propria vita. La moglie di Prokopenko si commuove, un’altra delle compagne (assistente parlamentare del partito di Zelensky) è già scoppiata in lacrime, Vespa stesso ha la premura di mostrarsi molto colpito.

Cosa c’è di più triste e meschino di sfruttare la commozione di persone che si confrontano ogni giorno con la dimensione del lutto, dell’angoscia, della privazione dei propri affetti? Non si può negare alle mogli di Azov il diritto di piangere per i propri compagni, anche se sono a Roma in una specie di tour mediatico, che ha riscosso grande successo sui nostri media, per divulgare un messaggio lucido e preciso, non proprio emotivo: “Chiediamo alle élite italiane di mediare per garantire una sicura uscita di Azov, di tutti i soldati e i civili da Mariupol”. E anche se il loro “agente”, l’uomo che ha organizzato la tournée, si chiama Petya Verzilov, già deus ex machina delle Pussy Riot, il collettivo punk-rock-anarco-femminista di dissidenti antiputiniane. Dall’estrema sinistra all’estrema destra, tutto fa spettacolo. Allo show di Vespa mancava solo un’ultima ciliegina, che arriva puntuale sul finire dell’intervista: il paragone con la lotta partigiana. Spetta a miss Prokopenko: “Pochi giorni fa in Italia avete festeggiato la festa di Liberazione dal nazismo, adesso c’è il fascismo vivo a Mariupol e deve essere combattuto”.

Applausi, sipario, pubblicità.