
(Toni Capuozzo) – Ah, come ci cambia la guerra. Un mio amico di Belgrado, città dove i sentimenti filorussi sono forti, ospita un renitente russo, sfuggito alla chiamata alle armi. Mi ha detto di un altro amico che ospita dei profughi ucraini. Credo che davanti alle guerre, se si ha la fortuna di non essere coinvolti, si debba esercitare innanzitutto pietà per le vittime, e aiutare chi sopravvive. E chi ha potere, usarlo per fermarle prima possibile. Ma forse siamo troppo intossicati da quel che resta delle ideologie, troppo allevati da una politica che imita le guerre civili, troppo imbestialiti dalla logiche dei like sui social, troppo diseducati da una televisione che dà il suo meglio nelle nomination, troppo maleducati da genitori assenti, troppo disistruiti da una scuola che non insegna, troppo educati da un giornalismo militante e conformista. Così guardiamo alle guerra come tifosi, o con noi o contro di noi, lavagne di buoni e cattivi. Non a caso chiediamo le abiure anche ai musicisti, mentre muoiono attori e ballerini, e il New York Times trova tiepido, nello schierarsi, papa Francesco.
Vedo imparare Slava Ukraina (Gloria all’Ucraina) cittadini del mondo che la parola Patria li faceva sbuffare. Vedo scaldare i motori dei caccia benpensanti che prendevano in giro – e i due maro ? dicevano – i fucilieri di marina. Vedo inebriarsi di eroismo quelli che davano del fascista a Fabrizio Quattrocchi solo per aver voluto morire guardando negli occhi il suo boia. L’obiezione di coscienza, davanti alle armi che forniamo, è diventata tradimento. Miracoli della guerra psicologica.
Non voglio semplificare troppo, ma Putin è l’invasore, con i suoi grandi torti e le sue piccole ragioni. Zelensky è l’invaso con le sue grandi ragioni e i suoi piccoli torti, che ho provato a dire più volte. Li senti parlare e capisci che sono due mondi opposti: uno sembra uscire da Netflix, è smart. L’altro ha coreografia stantia, e parole vecchie. Uno vuole farsi amare, l’altro vuole farsi temere. Uno ha un arsenale svelto e portatile, l’altro è ancorato come la corazzata Potemkin (curiosamente, nel film che entusiasmò Fantozzi c’è una scena in cui ai marinai viene servito un pasto andato a male. Succede di nuovo, a giudicare dalle razioni scadute trovate nei carri bruciacchiati).
Batte anche a me il cuore per i civili di Kiev, e non dimentico i civili del Donbass. Ma, mentre riconosco il diritto all’autodifesa, ci mancherebbe altro, non riesco a scaldarmi il cuore davanti alla mistica del sacrificio degli ucraini, per non dire dei legionari internazionali: per me il “dulce pro patria mori” è una cosa da secolo scorso. Imbelle – alla lettera non adatto alla guerra- mi sembra tutt’altro che un’offesa. Negli ultimi giorni, convinti di vincere, gli ucraini sono passati a una mistica della vittoria: i russi faranno da concime per i nostri campi di girasole. Nell’ultimo discorso Putin ha citato l’esigenza di difendere il Donbass, nessun cenno alla denazificazione né alla neutralità, come se si preparasse un compromesso, una via d’uscita, un cantar vittoria e portare la croce.
Mi ha colpito un’intervista rilasciata nel 2019 da Alexey Arestovich, il consigliere di Zelensky che ancora oggi interviene quasi quotidianamente sull’andamento del conflitto. Mi ha colpito perché prevede tutto, perfino l’andamento della guerra. L’avessi ascoltata allora, l’avrei preso per un pazzo. Ascoltandola adesso (c’è anche su You tube, ma dovrete farvi aiutare nella traduzione, anche se esiste in rete una versione sottotitolata) è clamorosa: sembra che la dirigenza ucraina abbia quasi coscientemente attirato il gatto cattivo Putin, aizzata dal cane da guardia occidentale nella trappola, Tom e Jerry. Qualcuno resterà nella tagliola ? Non lo so, e mi importa solo che duri il meno possibile.
Non potrei mai essere con chi aggredisce. Sono con i medici, i vigili del fuoco, i vivandieri, con chiunque lenisca il dolore, metta cerotti. Onore a chi difende, sì. Ma se devo identificarmi con qualcuno, a volte scruto tra i maschi che riescono a passare il confine, mezzi disertori. Posso anche non identificarmi con nessuno. Vorrei dire: identifichiamoci con noi stessi, che abbiamo preso le distanze dalle parole del Novecento, che siano quelle riverniciate di Zelensky o quelle polverose di Putin. Siamo così alieni dalla guerra, noi italiani, che perfino le armi le mandiamo da Pisa nascoste tra gli aiuti umanitari, e le ONG non hanno niente da dire. Sì, per evitare agguati russi, ma forse anche per un po’ di imbarazzo. Mi preoccupa il clima, e i guasti della guerra psicologica. Non quella minuta e sordida sulle vittime: nel teatro di Mariupol la sceneggiatura ha fatto la fine del discorso di Putin in televisione: interrotta, un solo ferito. No, la guerra psicologica in grande. Gli USA mettono in guardia: la Russia impantanata può ricorrere all’arma nucleare. E intanto attivano il loro arsenale di atomiche tattiche ad Aviano, prassi normale. E intanto passano da Bulgaria e Slovacchia gli S300, i missili già sovietici montati su camion, e dare agli ucraini i vecchi Mig 29 è una tentazione. Molti pensano che è l’occasione di sconfiggere Putin, che perde pezzi e carri e generali, e trovano negli ucraini dei combattenti surrogati per le loro battaglie. Non ho nulla da obiettare alla sconfitta di Putin- a stare all’informazione occidentale, ormai non lontana – anche se mi chiedo cosa venga dopo. E mi chiedo se dopo i disastri occidentali cui ho assistito, dai Balcani alla Libia, dalla Siria all’Afghanistan, come sia possibile che i miracoli della retorica di guerra abbiano improvvisamente fatto girare il vento e stavolta, immacolato, vincerà il “Bene”, come in un film. Oppure si andrà alla guerra tutti ? E la Cina ? Vien da disertare, lasciare perdere la gloria, e pensare a una pace accettabile per tutti, a un silenzio delle armi, a un riposo che non sia eterno.