
E’ colpa della Nato se Putin bombarda.
La dottrina “Sinatra”.
Kiev, 26 febbraio 1989.
Michail Gorbačëv, presidente dell’Urss, così si rivolgeva agli ucraini affinché tutti gli altri popoli del Patto di Varsavia potessero comprendere: “Oggi molti Paesi socialisti stanno cercando le forme del passaggio a una qualità nuova della loro vita e al consolidamento della società sulla base dello sviluppo del potenziale della democrazia socialista…. i principi che devono reggere questo nuovo sistema di relazioni inter-comunista: L’indipendenza, l’uguaglianza completa, la non-interferenza assoluta, la correzione di deformazioni e sbagli legati al passato della storia del socialismo…”.
Tradotto: ogni stato farà da sé per trovare la strada migliore per il suo futuro. Nessuna ingerenza sarà presa dall’Urss.
Gerasimov coniò con il termine “Dottrina Sinatra” la politica estera di Gorbačëv dalla splendida canzone di Sinatra, My Way.
Il ministro degli Esteri russo, Eduard Shevardnadze, sostenne che i sovietici riconoscevano il diritto di ogni popolo di scegliere da che parte stare.
A maggio 1989, l’Ungheria aprì i confini con l’Austria e si riversarono migliaia di tedeschi dell’Est verso l’Austria e da lì nella Germania Ovest.
A settembre 1989, in Polonia si insediò il primo governo non comunista che regnava dal 1948.
Ad ottobre di quell’anno il Patto di Varsavia vacillava in modo incredibile: nella riunione storica a Varsavia si decise di ripudiare l’uso della forza in campo internazionale e la Guerra Fredda.
Ecco, mi chiedo, cosa c’entra Gorbačëv e le chiacchiere di James Baker sui confini Est-Ovest, quando nel 2022 un ex ufficiale del Kgb decide di annientare un popolo e uno stato sovrano?
Stefano Rossi
e questo signor Stefano Rossi chi è?
visto quello che scrive e quello che domanda
gli consiglio di abbonarsi alla rivista LIMES
forse troverà qualche risposta
dovrebbe anche studiare un pochino la storia
ma studiarla veramente senza il copia incolla
soprattutto il periodo della decolonizzazione degli imperi europei;
ora sono rimasti 3 imperi
uno in ascesa: la Cina
uno che cerca disperatamente di riprendersi e non soffocare; La Russia
e uno che cerca di soffocare gli altri due: USA
gli imperi hanno sempre ragionato così
al di là delle epoche o di chi li governava
la situazione attuale è una conseguenza di uno dei casi irrisolti della decolonizzazione
solo che ce ne accorgiamo solo perchè si trova in Europa
e colpisce noi e non regioni lontane
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Addirittura “annientare un intero popolo”!
annientare
/an·nien·tà·re/
verbo transitivo
1.
Ridurre a niente, distruggere completamente.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/03/18/guerra-russia-ucraina-tensione-a-mariupol-tra-militari-russi-e-manifestanti-i-soldati-mostrano-le-armi-per-allontanarli-video/6530133/
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Andò per annientare, e fu annientato.
Politicamente, economicamente, militarmente.
Tempo al tempo.
Qui non c’è neanche l’ombra dell’Armata rossa che schiacciò la rivoluzione ungherese, ma qualche decina di migliaia di professionisti dalle fila gonfiate di ragazzini e riservisti, con mezzi per lo più obsoleti ed una catena di comando quantomeno discutibile.
Sembra quasi nonno Benito che voleva spezzare le reni alla Grecia con le pezze al qlo.
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Sogna, sogna Yankie, sogna…
«Un Sukhoi per i giovani “amerikani”
Date: 1 Dicembre 2014
Fra circa tre mesi comincerà la produzione in serie del Sukhoi T 50 il caccia di quinta generazione che la Russia ha progettato assieme all’India: secondo le stesse fonti occidentali ha una velocità di punta di 700 kmh superiore rispetto a quella del cosiddetto supercaccia F35, un raggio di azione doppio rispetto alla costosissima ciofeca made in Usa, un maggior carico bellico e una capacità stealth superiore rispetto a quella del caccia Lokheed. E costerà naturalmente molto meno oltre ad essere a quanto pare assai più affidabile.
Qualcuno si domanderà se per caso io abbia acquisito la rappresentanza del nuovo velivolo e quindi cominci a mettere la pulce nell’orecchio ai nostri decisori ben decisi a spendere e spandere in armamenti già superati, per ingrassare Washington e impoverire gli italiani. Purtroppo per le mie finanze non è così: mi preme solo dare un’immagine più realistica del mondo “ai giovani amerikani” quelli dai quarant’anni in giù che hanno introiettato con il latte materno e con gli spot, l’idea del capitalismo vittorioso, dell’America invincibile, dell’Urss caduta per non aver potuto reggere il confronto militare e tecnologico, quelli che vengono rimbambiti tutto il giorno da reality made in Usa, pieni di sogni e di infimo moralismo antisociale, che vedono le bombe intelligenti cadere sui nemici e vivono nella sensazione di una superiorità indiscutibile del gigante a stelle e strisce, anche quando ne contestano le azioni.
Così al di là delle posizioni politiche la gran parte degli europei e soprattutto degli italiani ritiene che un’eventuale guerra per l’Ucraina sarebbe una cosa orribile, una strage vergognosa o una battaglia giusta, ma conservando nel sublimine così opportunamente coltivato nel pensiero unico e nel mondo unipolare che ne è espressione, la strampalata convinzione che comunque sarebbe una guerra vinta. Nient’altro che un sottoprodotto dell’idea che Pil, mercato azionario e profitto, si traducano automaticamente in supremazia tecnologica. Il nuovo caccia russo smentisce questa idea: del resto la realtà di un declino americano anche in campo tecnologico, innescato da un eccesso di mercato, era già stata espressa negli anni 90 persino da un intellettuale conservatore come Luttwak . Un’idea che al tempo in pieno marasma post sovietico e con una Cina militarmente arcaica, venne lasciata cadere.
E non è certo l’unica cosa: l’Iskander con una velocità di Mach 7 e una gittata di oltre 400 chilometri è praticamente non intercettabile dalle forze Nato; gli S 400 come arma antiaerea hanno le stesse caratteristiche dei Patriot, ma con un raggio di azione più che doppio e una velocità di Mach 12 contro i 5 dell’arma americana, per non parlare degli S500 che stanno entrando in linea e che relegano al museo i missili smerciati da Washington. Per di più i vettori balistici russi hanno una velocità di 18 mach e sono praticamente imbattibili da qualsiasi cosa si trovi attualmente negli arsenali occidentali. Questo per non parlare della Cina che negli ultimi anni sta dando molti dispiaceri al Pentagono soprattutto nel campo degli armamenti navali e in quello della lotta antisatellitare.
Tutto questo non stupisce: la stessa elefantiasi del sistema militare americano lo costringe ad essere in parte obsoleto e se a questo si aggiunge un sistema ormai completamente focalizzato sul business che si ingrassa di commesse pubbliche per produzioni spesso mediocri ,come è il caso del,’F35, poi spacciate all’estero, si vede bene che le cose non sono così scontate come appaiono all’uomo della strada occidentale immerso nelle immagini di guerre contro avversari di livello enormemente inferiore. Perciò se non possiamo sapere chi potrà vincere (ammesso che questa parola abbia un senso) un eventuale confronto globale, possiamo avere la ragionevole sicurezza che l’Europa ne uscirebbe distrutta.
Probabilmente se si avesse consapevolezza dei reali rapporti di forza, che vengono tenuti accuratamente nascosti, le opinioni pubbliche europee sarebbero molto meno neutrali e tiepide con la roulette russa – è il caso di dirlo – a cui Washington sta costringendo il continente per la vicenda ucraina. Avrebbe un minor senso di impunità. E forse comincerebbero a vedere nella multipolarità un’occasione piuttosto che un tradimento del padrone atlantico, nonostante quest’ultimo abbia in mano tutte le elite, costringendole a qualsiasi cosa, persino ad appoggiare lo stop Usa all’accordo sul nucleare iraniano pretendo che Teheran, a latere, rinunci a fare a meno del dollaro negli scambi con Mosca. E dire che sono proprio quelli che ci hanno cacciato nella trappola dell’euro spacciandola come moneta strategica.»
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Se le persone organizzano proteste davanti ai militari armati, dubito che l’obbiettivo di questi sia “annientare un intero popolo” come dice l’articolista.
Gettare benzina sul fuoco, continuando a far credere che Putin voglia sterminare tutti gli ucraini, farà solo peggiorare le cose.
Si continua a non voler capire cosa significherebbe una guerra nucleare con migliaia di ordigni che in confronto quelli sul Giappone apparirebbero dei grossi petardi. I cieli si oscurerebbero per anni e le radiazioni, comprese quelle delle centrali nucleari distrutte, avvolgerebbero la terra per centinaia o migliaia di anni.
Dovremmo cercare in tutti i modi di allontanare questa possibilità, ma vedo che in molti prevale la voglia di sentirsi eroi che sconfiggeranno l’impero del male, come in star wars.

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No Gattovic, non darmi dello yankee 🤢 🤮 che mi offendo profondamente, comunque prendiamo atto e restiamo in trepida attesa che questo armamentario del 2014 in mano ai riservisti faccia sfracelli contro le nonnine armate di molotov della propaganda del comico presunto buffone
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Frankie
E non ti sembra di contraddirti?
Uno che va per annientare, non si presenta in “bermuda ed infradito”.
Mussolini non aveva la possibilità, aveva solo l’arroganza, ma Putin, i mezzi, li avrebbe.
Com’è che li ha tenuti a casa?
Forse l’intenzione di ANNIENTARE non c’era e non c’è, anche se l’Ucraina è convinta di fermare i russi a mani nude (e mica tanto, vista la valanga di armi di cui è stata fornita da BEN PRIMA dell’invasione) .
“L’elefante sta perdendo contro di me” disse la formica…sinché l’elefante si stancò e alzò la zampa.
Io direi che è il caso di spostarsi, visto anche che siamo in una cristalleria.
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da LIMES del aprile 2014
FOMENTA E DOMINA
Dietro la crisi ucraina c’è un preciso progetto statunitense:
prendere Kiev per ridimensionare le ambizioni regionali e globali di Mosca.
Storia di una rivolta pianificata e delle armi utilizzate da Obama per ribadire al mondo chi comanda davvero.
di Dario FABBRI
L’equilibrio di potenza è la cifra della dottrina Obama. A dispetto della vulgata giornalistica che lo vuole restio a intervenire sulla scena internazionale, se non addirittura fautore di un isolazionismo mascherato, in realtà il presidente americano persegue i classici dettami della politica dell’equilibrio. Frenato dai postumi della crisi economica e dall’avversione dell’opinione pubblica per ogni avventurismo militare, Barack ha preferito
accantonare l’eccezionalismo dei padri fondatori per adottare la strategia che fu per secoli della corona britannica: impedire l’emergere di una nazione in grado di dominare la propria regione di appartenenza e potenzialmente di insidiare il primato della superpotenza.
In quest’ottica la tattica più efficace, e meno dispendiosa, è acuire le tensioni tra i principali attori regionali, obbligandoli a concentrarsi sulle questioni continentali e ad abbandonare le ambizioni globali. Perfino
nell’Asia-Pacifico, quadrante cruciale per le sorti del pianeta, dove Washington pratica il containment della Cina sostenendo la corsa agli armamenti di giapponesi, sudcoreani e australiani. In Europa è la Russia ad
aver raggiunto una pericolosa posizione di forza. Grazie alla sua scaltrezza, unita alla compiacenza della Germania e alla distrazione degli Stati Uniti, nell’ultimo decennio Putin ha pressoché neutralizzato il cosiddetto «estero vicino» e legato al proprio benessere il Vecchio Continente dipendente dal gas siberiano. Libero di scrutare l’orizzonte, il capo del Cremlino ha potuto dedicarsi a questioni di planetaria rilevanza, provocando alla Casa Bianca più di un imbarazzo, in Siria come in Egitto, quanto con la concessione dell’asilo
al fuggitivo Edward Snowden.
Matura così la necessità di scalfirne le certezze e provocare al contempo una spaccatura tra Mosca e Berlino. A metà 2013 gli analisti statunitensi individuano nell’embrionale crisi ucraina l’occasione per colpire Putin e
costringere la Merkel a scegliere tra la fedeltà atlantica e la sua audace Ostpolitik. L’optimum si raggiungerebbe se l’Unione Europea cadesse nella trappola di integrare l’Ucraina – un fardello economico capace di sferrare il colpo di grazia alla già traballante architettura comunitaria – ma Obama si accontenta di sottrarre il paese all’influenza russa. Ne scaturisce uno scontro combattuto a colpi di operazioni coperte, propaganda mediatica e ritorsioni finanziarie che in poche settimane fa scendere sull’Europa un clima da guerra fredda e pone Russia e Germania sulla difensiva…..
continua
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Quando si confondono i paesi facenti parte del patto di Varsavia, anche allora ufficialmente sovrani, con l’ Ucraina ancora una repubblica non sovrana, ma facente parte dell’URSS, significa non aver capito niente di quello che diceva Gorbacev. Mi
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da LIMES del aprile 2014
FOMENTA E DOMINA
2.
La scelta americana di passare al contrattacco in Ucraina è dettata da ragioni di carattere simbolico, strategico e congiunturale. Nell’immaginario russo «la nazione di confine» ricopre un ruolo eccezionale: è a Kiev che nel
IX secolo nasce la Rus’, antesignana della Russia attuale, ed è con il battesimo nelle acque del fiume Dnepr che un secolo più tardi Vladimir il Grande impone il cristianesimo ai suoi sudditi. Sul piano strategico il
controllo dell’Ucraina consente a Mosca di allontanare la prima linea di difesa dall’heartland nazionale, per conformazione orografica da sempre esposto alle invasioni straniere, e di mettere nel mirino l’Europa centrale.
Inoltre, eredità della rivoluzione arancione del 2004, specie nelle regioni occidentali del paese Washington controlla un folto numero di organizzazioni non governative che, in caso di rivolta popolare, possono fungere da avanguardia per un’azione tesa a destabilizzare l’esecutivo ucraino.
Infine nel 2010 è stato eletto presidente Viktor Janukovyč, despota corrotto e maldestro che gioca su più tavoli nel tentativo di lucrare sulle scelte di politica estera e sul cui conto l’amministrazione Usa possiede
informazioni esclusive. Nello specifico, a curare i suoi interessi americani è la società di lobbying di John Podesta, attuale consigliere straordinario di Obama. E dal 2005 fino all’improvvida fuga dello scorso febbraio, il principale consulente politico di Janukovyč è stato lo statunitense Paul Manafort, titolare di un’azienda di consulenza elettorale che gestisce assieme a Rick Davis, già spin doctor di John McCain, a sua volta destinato nella commedia ucraina al ruolo di novello Charlie Wilson. (Charles Wilson è ricordato per aver coordinato l’operazione Cyclone, la più grande operazione segreta mai eseguita dalla CIA, che rifornì i Mujaheddin afghani per combattere l’invasione sovietica dell’Afghanistan.)
L’antefatto risale all’estate del 2013. Il progetto obamiano di minare dall’interno la tenuta della Federazione Russa è naufragato: troppo risicate le risorse a disposizione della Cia e troppo complicato eludere il sofisticatissimo servizio di intelligence del Cremlino (Fsb). Snervato dalle continue intimidazioni, per la prima volta l’ambasciatore Michael McFaul comunica ai superiori l’intenzione di lasciare Mosca per far rientro in patria. Al contrario Putin, rincuorato dal consolidamento del fronte domestico, da alcune settimane è tornato a viaggiare all’estero. A fine luglio vola a Kiev per ribadire che non permetterà all’Ucraina di uscire dall’orbita russa e ai primi di settembre si serve dell’accordo relativo allo smaltimento delle armi chimiche per impedire il rovesciamento di al-Asad.
È in quei giorni che la Casa Bianca medita la svolta. Presto Janukovyč dovrà decidere se aderire all’Unione doganale oppure firmare un accordo di associazione con l’Unione Europea e Barack è sicuro di poter beneficiare di un eventuale stallo.
Con una scelta assai rilevante, il 18 settembre nomina assistente segretario di Stato per gli Affari eurasiatici Victoria Nuland, diplomatico di professione influenzata dal pensiero neoconservatore, la cui carriera è segnata
da frequenti avventure oltrecortina. Nei primi anni Ottanta trascorre otto mesi su un peschereccio sovietico al largo dell’Oceano Pacifico, sul quale sviluppa una passione per la storia e la lingua russa, oltre che per la vodka Stoličnaja. Nell’agosto del 1991 si mischia tra la folla moscovita durante le ore più concitate del golpe organizzato per deporre Gorbačëv e negli anni Novanta, nelle vesti di capo di gabinetto del vicesegretario di Stato Strobe Talbott, sovrintende all’allargamento della Nato verso est.
A lei Obama affida il compito di coordinare il lavoro delle numerose ong operanti in Ucraina, quinta colonna in grado di intercettare e indirizzare gli umori della popolazione filoccidentale. Anche le ong tedesche sono molto
attive – in particolare la fondazione Konrad Adenauer che formando Vitalij Klyčko ha creato in laboratorio il suo candidato di riferimento – ma gli americani non si fidano di Berlino e preferiscono muoversi autonomamente.
Come rivelato lo scorso dicembre dalla stessa Nuland, dalla fine della guerra fredda gli Stati Uniti hanno speso oltre 5 miliardi di dollari per «rendere l’Ucraina una nazione sicura e democratica» e secondo quanto riferito alla commissione Esteri del Senato dal vicesegretario di Stato per i Diritti umani, Tom Melia, di questi quasi un miliardo è finito nelle casse delleorganizzazioni non governative. Soltanto nel 2012 il National Endowment for
Democracy, l’ente collegato al Dipartimento di Stato incaricato di promuovere la democrazia a livello globale, ha finanziato in Ucraina ben 65 progetti.
Tra le ong maggiormente presenti nell’ex paese sovietico figurano: Open Society Foundations del magnate George Soros, che nel 2012 ha speso da queste parti oltre 10 milioni di dollari; Freedom House, qui collegata
all’Institute for Mass Information; il National Democratic Institute for International Affairs; la Millennium Challenge Corporation; l’International Center for Journalists, parzialmente sovvenzionato da Bill Gates e curatore del progetto Yanukovich Leaks.
Allo stesso tempo l’amministrazione Usa mantiene contatti con gli oligarchi più influenti, soprattutto quelli che si oppongono all’orientamento filorusso del governo di Kiev. A settembre Bill e Hillary Clinton sono gli
ospiti d’onore della conferenza organizzata annualmente a Jalta dal tycoon dell’acciaio Viktor Pinčuk per rinsaldare i legami tra Ucraina e Occidente.
Nello stesso periodo emissari dell’ambasciata statunitense si incontrano con il re del cioccolato Petro Porošenko, i cui prodotti sono banditi nella Federazione Russa, e con i finanzieri Ihor Kolomojs’kyj e Kostjantin Ževago.
Rimangono al fianco di Janukovyč i due uomini più ricchi della nazione, Rinat Akhmetov e Dmytro Firtaš, ma col tempo entrambi si arrenderanno al misto di lusinghe e minacce somministrato da Washington.
L’offensiva entra nel vivo a fine novembre, quando centinaia di persone iniziano a radunarsi in piazza Indipendenza a Kiev per protestare contro la decisione di Janukovyč di respingere l’offerta di Bruxelles.
Le ong si adoperano per coinvolgere tutti gli strati della popolazione e tra l’11 e il 14 dicembre Nuland e i senatori John McCain e Chris Murphy giungono sul posto per manifestare la propria solidarietà al movimento di Jevromajdan.
Seguendo l’esempio delle cosiddette donut dollies, le volontarie incaricate di tenere alto il morale delle truppe statunitensi impegnate nella seconda guerra mondiale, in Corea e in Vietnam, Nuland scende in piazza per regalare panini e biscotti ai manifestanti antigovernativi e ai poliziotti presenti. Al Cremlino non sfugge il valore simbolico dell’evento. «È stato un gesto umiliante: degli ucraini che mangiano da mani americane!», commenterà sdegnato l’ambasciatore russo presso le Nazioni Unite, Vitalij Čurkin.
In seguito Nuland si incontra con Akhmetov, al quale paventa l’intenzione di sanzionare gli interessi degli oligarchi collusi con il governo nel caso in cui la protesta fosse sedata nel sangue. McCain invece prima
arringa la folla, annunciando che «l’America è dalla parte degli ucraini che vogliono il cambiamento», quindi va a cena con il fondatore della formazione ultranazionalista di Svoboda, Oleh Tjahnybok. L’inettitudine di
Janukovyč, in bilico tra repressione e compromesso, favorisce il perdurare della protesta, mentre sul terreno si intensificano la presenza dell’intelligence americana e la competizione tra Stati Uniti e Germania che sostengono rispettivamente il principale esponente dell’Unione panucraina Bat’kivščyna (Patria), Arsenij Jacenjuk, e il capo del partito Udar (Colpo), Vitalij Klyčko.
Obama è convinto che la Merkel non abbia intenzione di rompere con Putin, ma che piuttosto stia sfruttando gli eventi ucraini per bilanciare a suo favore l’intesa bilaterale e proporsi come leader indiscusso dell’Europa orientale.
Così ai primi di febbraio Nuland alza il telefono per recapitare un chiaro avvertimento al governo tedesco e arrogare agli Usa il ruolo di riferimento esterno della protesta. In barba a ogni precauzione tecnica, in una nazione monitorata capillarmente dallo spionaggio russo, il diplomatico utilizza una comune linea cellulare per chiamare a Kiev l’ambasciatore Geoffrey Pyatt e parlare apertamente della posizione americana. «Non credo che Klyčko debba entrare nel governo. (…) Solo l’Onu può sistemare le cose, che l’Ue si fotta»9, dice Nuland con ostentato candore, apostrofando con un nomignolo (Jac) Jacenjuk e servendosi dello slang per spiegare che il vicepresidente Biden è pronto a complimentarsi con Janukovyč se collaborerà con l’opposizione (he’s willing for an attaboy). Come ampiamente previsto, in poco tempo la conversazione finisce prima su YouTube e poi sull’account Twitter di Dmitrij Loskutov, un collaboratore del vice premier russo. Il Dipartimento di Stato accusa Mosca d’aver giocato sporco, ma in privato si rallegra per un piano ben riuscito. Si tratta della prima operazione di false flag in una vicenda disseminata di manovre coperte.
Intanto l’entrata in scena di gruppi paramilitari collegati ai servizi occidentali, come Pravyj Sektor (Settore di destra) e l’Assemblea nazionale ucraina Samooborona (Autodifesa), pareggia la ferocia dei berkut, i reparti
antiterrorismo del ministero dell’Interno, e determina il definitivo precipitare della situazione. Il 20 febbraio cecchini non identificati sparano sulla folla, mettendo in fuga le forze di polizia e provocando la morte di decine di persone. Secondo quanto riferito dal ministro degli Esteri estone, Urmas Paet, all’alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue, Catherine Ashton, ad aprire il fuoco sarebbero stati elementi legati ai manifestanti con l’obiettivo di far ricadere la colpa sull’esecutivo.
Nelle stesse ore i canali televisivi Ukrajina e Inter, appartenenti rispettivamente ad Akhmetov e Firtaš, iniziano a trasmettere reportage favorevoli a Jevromajdan. È il segnale della fine. Il 21 febbraio Janukovyč sottoscrive con gli esponenti dell’opposizione un accordo che prevede elezioni anticipate, un esecutivo di solidarietà nazionale e il ripristino della costituzione in vigore nel 2004. La piazza però respinge il compromesso e
profittando del caos e della complicità degli oligarchi il parlamento nomina Arsenij Jacenjuk primo ministro ad interim e vota all’unanimità la procedura di impeachment nei confronti di Janukovyč, che fugge in Russia….
continua
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da LIMES del aprile 2014
FOMENTA E DOMINA
3. A rivoluzione compiuta gli sforzi americani si concentrano sull’inevitabile risposta russa, potenzialmente in grado di annullare il vantaggio acquisito. Già il 21 febbraio la Casa Bianca si serve del New York Times per comunicare con il Cremlino. Dalle colonne del quotidiano «anonimi funzionari dell’amministrazione federale» invitano Putin ad accettare il fait accompli, in cambio della normalizzazione dei rapporti bilaterali e di un improbabile accordo commerciale12. A destare preoccupazione è la possibilità che la Russia – impegnata con oltre 150 mila uomini in un’esercitazione militare oltreconfine – invada l’Ucraina e comprometta la fiducia che le nazioni dell’Europa orientale ripongono nella deterrenza garantita dagli Stati Uniti.
Tra il 22 e il 27 febbraio rapporti riservati della Cia, della Defense Intelligence Agency (Dia), l’organo di spionaggio estero del Pentagono, e dell’Ufficio del direttore dell’intelligence nazionale (Odni) definiscono
imminente «un’azione» realizzata da reggimenti «speciali»: citano i mercenari della Vnevedomstvennaja Okhrana e gli specnaz, ma ammettono di non sapere quali regioni ne saranno interessate. A differenza del resto d’Europa, la Russia sfugge al controllo dell’Nsa e nonostante i 300 mila dollari spesi dal leggendario Office of Net Assessment del Pentagono per studiare il linguaggio del corpo di Putin, nessuno sa prevedere con certezza le sue mosse. Nemmeno Silvio Berlusconi, il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman o il presidente kazako Nursultan Nazarbaev, contattati nel frattempo dal Dipartimento di Stato per avere impressioni su cosa stia per accadere. In piena nebbia di guerra Obama si convince che «il bullo» stia per
invadere l’Ucraina orientale e la sera del 28 febbraio si presenta davanti alle telecamere per minacciarlo «di gravi ritorsioni».
Tuttavia il giorno seguente l’occupazione russa della Crimea gli permette di tirare un (parziale) respiro di sollievo. Al netto delle rimostranze ufficiali, Barack considera un sacrificio tollerabile barattare la penisola abitata in maggioranza da russi con il nuovo status quo imposto al resto del paese. Peraltro la patente violazione della sovranità ucraina pone adesso tedeschi e cinesi in una posizione di notevole imbarazzo, costringendoli a scegliere tra la volontà di preservare un’alleanza strategica e la necessità di condannare un
atto che almeno formalmente lede i princìpi della loro politica estera.
Il punto è impedire a Putin di inghiottire il resto dell’Ucraina.
Inizialmente la Casa Bianca pensa di inibirne le intenzioni attraverso l’imposizione di sanzioni economiche concertate con l’Unione Europea.
L’illusione svanisce in seguito alle telefonate avute con i leader del Vecchio Continente e agli incontri con i rappresentanti delle associazioni industriali d’America. La Germania è pronta a censurare verbalmente l’accaduto e a raffreddare la cooperazione militare, ma non vuole scatenare la rappresaglia energetica del Cremlino e perfino il fido alleato Cameron si rifiuta di privare la City londinese degli ingenti capitali russi.
Dal canto loro le multinazionali statunitensi operanti in Russia – su tutte ExxonMobil, Boeing, Ford – vogliono impedire che, in caso di misure punitive imposte unilateralmente dagli Usa, i concorrenti europei assorbano
la loro fetta di mercato. Così Obama si accontenta, a cavallo del referendum per l’indipendenza della Crimea, di approvare sanzioni largamente simboliche che colpiscono alcuni membri dell’entourage presidenziale,
nonché Bank Rossija, l’istituto di San Pietroburgo legato a Gazprom, ma che non hanno alcun impatto concreto.
Le armi più efficaci in possesso degli Stati Uniti si rivelano l’aggressione mediatica e la speculazione finanziaria. La diffusione planetaria e il prestigio riconosciuto ai media d’Oltreoceano consentono alla Casa Bianca di respingere agevolmente le accuse di interferenza e di bollare come barbara e anacronistica la reazione russa, sebbene questa sia stata pressoché incruenta e possa essere considerata una declinazione della responsibility to protect.
Contemporaneamente le manovre speculative infliggono danni ragguardevoli alla già fragile economia russa. Rispetto ai tempi della guerra fredda, oggi l’ex superpotenza comunista aderisce (suo malgrado) al Washington Consensus e il governo federale è doppiamente esposto all’umore dei mercati perché azionista di maggioranza delle principali aziende nazionali.
Agli Usa bastano gli strumenti convenzionali della politica monetaria e finanziaria – tapering, diffusione del panico fra gli investitori, valutazione della solvibilità – per colpire l’avversario. Non a caso il lunedì successivo
all’invasione della Crimea, l’indice Rtsi della Borsa di Mosca scende di ben 12 punti, bruciando quasi 60 miliardi di dollari, la stessa somma spesa per organizzare le Olimpiadi di Soči. E nelle settimane seguenti, le newyorkesi agenzie di rating Fitch e Standard & Poor’s rivedono al ribasso l’outlook della Federazione, portandolo da stabile a negativo, inserendo l’attuale congiuntura geopolitica tra le motivazioni della decisione. La Banca centrale russa prova a cautelarsi ritirando tra il 26 febbraio e il 12 marzo dalla sede della Federal Reserve di New York 118 miliardi di dollari in buoni del Tesoro, ma si tratta di una partita palesemente impari.
Anche per questo il bilancio della crisi arride agli Stati Uniti. La Germania non sembra intenzionata a stravolgere la propria strategia e l’Europa non dispone dei mezzi finanziari e della volontà politica necessari a
mantenere stabilmente l’Ucraina nel campo occidentale. Inoltre la Russia ha riconquistato la Crimea, rettificando il torto perpetrato sessant’anni fa da Khruščëv e, toccata sul vivo, proverà adesso a ostacolare gli Stati Uniti su dossier internazionali di primaria importanza: dalla trattativa per il programma nucleare iraniano alla guerra civile siriana, fino al prossimo ritiro Nato dall’Afghanistan.
Tuttavia l’iniziativa americana, realizzata magistralmente, ha colto nel segno: Putin è impegnato in una battaglia di retroguardia, costretto a difendersi piuttosto che a inseguire traguardi di grande respiro; la Merkel ne
ha inevitabilmente disapprovato l’operato e tra Mosca e Pechino c’è stato un animato confronto sul tema. Con il minimo sforzo politico, economico e di intelligence la Casa Bianca ha ottenuto ciò che voleva. «La Russia è soltanto una potenza regionale e non può rappresentare una minaccia globale», ha spiegato Obama il 25 marzo, quasi a illustrare la sua dottrina e a dichiarare compiuta la missione ucraina. In nome dell’equilibrio di potenza.
The End??
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Mettere la data sull’articolo di Limes, no?
Non ti sembra che sia un po’ datato??
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C’è scritto all’inizio Viviana, aprile 2014.
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