(Massimi Gramellini – corriere.it) – Ieri al risveglio ho aperto il nostro sito e ho scoperto che avrei potuto non risvegliarmi mai più. Nella notte i russi avevano attaccato una centrale nucleare provocando un incendio. Mentre io, ignaro, navigavo tra i sogni, per due lunghe ore i soldati di Putin avevano impedito ai pompieri ucraini di spegnere le fiamme, cioè di salvare la vita anche a loro. Su cosa ne sarebbe stato di noi preferisco non approfondire, ma le dimensioni della centrale e il suo nome, Zaporizhzhia, con tutte quelle zeta da ultimo giorno dell’umanità, non autorizzano pensieri allegri. Ciò su cui invece vorrei portare l’attenzione è che questa settimana si è registrato uno scatto nel linguaggio: l’Indicibile è diventato dicibile.

Quando si rischiò l’incidente nucleare alla Baia dei Porci avevo pochi mesi di vita, per cui nei miei ricordi di bambino e poi di adulto la minaccia atomica non ha una consistenza reale: è uno spauracchio, un tabù. Si è sempre saputo che c’era, ma si faceva finta che non ci fosse, nell’intima e condivisa certezza che nessuno potesse non dico usare l’arma fine-di-mondo, ma anche solo evocarla. Come una pistola nascosta in un cassetto chiuso a chiave. Adesso qualcuno ha aperto il cassetto e ha messo la pistola sul tavolo. Non l’ha ancora impugnata. Però intanto ne parla e parlandone la fa lentamente penetrare nel novero delle cose possibili. Una delle opzioni sul tappeto, si dice in gergo. Solo che dopo la zeta non c’è più niente, neanche il tappeto.