(Andrea Scanzi) – La frase di Giuseppe Conte sulla sua “stanchezza” è un evidente errore di ingenuità, peraltro abbastanza raro in una persona che comunicativamente sbaglia poco. E’ ovvio che, se dici “sono stanco e non so quanto durerò” andando su e giù per l’Italia, e lo dici quando sei capo del Movimento 5 Stelle da pochissimo e quel tour lo hai appena cominciato, presti il fianco ad attacchi di ogni tipo. Ancor più se sei Conte, e dunque per 3 giornalisti su 4 hai torto a prescindere.

Quella frase, però, rivela involontariamente l’unico vero limite di Conte. Ovvero il suo essere “alieno” alla politica. In un paese che ha la memoria storica dei pesci rossi morti, giova ricordare che Conte fino a poco più di tre anni fa non c’entrava nulla col mondo storto che ora frequenta. Di colpo è passato da una vita di avvocato e professore di successo a quella di un Presidente del Consiglio di due governi, peraltro di segno opposto. E il secondo di quei due governi ha pure attraversato (primo in Europa) una pandemia che ahinoi perdura ancora. Conte è un unicum politico mondiale, che costringe (o almeno dovrebbe costringere) gli scribi nostrani a sforzi suppletivi e sfaccettature continue. Prassi mentali troppo faticose, e dunque buona parte dei media risolve il problema crivellando a nastro il “diverso” e celebrando la “restaurazione”. Conte resta però un “diverso”, e come tale – se solo si ferma un attimo a riflettere su quel che sta facendo – avverte subito voglia di tornare alla vita di prima, meno faticosa e più redditizia.

Essere diverso dagli altri è la forza di Conte, perché ne sottolinea la lontananza dagli “altri”. Ma è anche il suo limite, perché è tutta da valutare una sua tenuta alla distanza in un microcosmo politico fatto non solo – ma temo soprattutto – di furbetti, conformisti, cinici e carogne.

Verrebbe da dire che Conte può disarcionarsi unicamente da solo, vuoi per stanchezza e vuoi per inesperienza, perché al momento non ha rivali nella sua parte politica. Bastano due parole per ribadirlo: “espulsione” e “ovazione”. L’espulsione del candidato reo di avere insultato Giorgia Meloni non è solo una mossa sacrosanta, perché certi toni vanno bene al massimo per una gara di rutti tra Borghi e La Russa, ma è pure l’ennesima sottolineatura della diversità contiana. Se lui caccia dalle liste chi anche “solo” insulta, la destra fa l’opposto. Grida al sacrilegio se riceve critiche, ma poi nelle sue milizie smandruppate apre porte e baracche (anche) a insultatori, nostalgici, antisemiti e fascistoni. Questa sensazione di totale estraneità di Conte dalle mefitiche logiche partitiche è per lui manna dal cielo (e per gli altri kryptonite). Quanto poi all’ovazione, basta pensare a come Conte sia stato accolto la settimana scorsa alla Festa dell’Unità di Bologna. Una manifestazione d’affetto arrivata non dal suo popolo naturale, ovvero i 5 Stelle, ma da quegli elettori (di cui faceva parte lo stesso Conte fino al 2018) che fino a due anni fa guardavano ai grillini come a dei trogloditi ipodotati. Quella standing ovation, che senz’altro avrà indispettito giornaloni e tromboni, dice una cosa molto semplice: che anche gli elettori del Pd vogliono Conte. Per meglio dire: che la maggior parte di loro ne ha apprezzato le qualità di Presidente del Consiglio nel secondo governo e che vuole ora quel “campo progressista” di bersaniana memoria. Conte, a oggi, è l’unico leader credibile da contrapporre a questa destra troppo spesso vomitevole. A meno che, nel frattempo, non sia Conte stesso a rompersi le scatole.

(Oggi sul Fatto Quotidiano)