Nonostante sia un accademico, quasi nessuno ormai – renziani a parte e si spiega da sé – pensa che Roberto Cingolani sia un intellettuale: forse perché, da quando lo scienziato prestato a Leonardo si è prestato al ruolo di ministro della Transizione ecologica parla spesso e si sente cosa dice.

(pressreader.com) – di Marco Palombi – Il Fatto Quotidiano – Nonostante sia un accademico, quasi nessuno ormai – renziani a parte e si spiega da sé – pensa che Roberto Cingolani sia un intellettuale: forse perché, da quando lo scienziato prestato a Leonardo si è prestato al ruolo di ministro della Transizione ecologica parla spesso e si sente cosa dice.
Ieri, ad esempio, alla scuola politica (sic) di Italia Viva nella ridente Ponte di Legno, Cingolani, volendo forse épater le bourgeois, ha finito per sovvertire la logica. Il nostro ha infatti tracciato un quadro a tinte fosche del futuro: “I mari si innalzano di 20 centimetri rispetto al secolo scorso. Di questo passo fra 60 anni non avremo più città costiere in Italia, saranno tutte sott’acqua, fra 60-70 anni i bambini che oggi sono a scuola probabilmente non potranno vivere a Genova, Napoli, Pisa, Livorno, Palermo”.
Bene, e a fronte di questa tragedia? “La transizione ecologica deve essere sostenibile sennò non si muore di inquinamento, ma di fame. Non si può ridurre la CO2 chiudendo da domani le fabbriche di auto”.
Il problema, per il ministro, è che “il mondo è pieno di ambientalisti radical chic e di ambientalisti oltranzisti, ideologici: sono peggio della catastrofe climatica verso la quale andiamo sparati”.
Ora, a parte che ognuno si sceglie i nemici che crede (gli ambientalisti radical chic?), evidentemente la transizione energetica deve essere sostenibile economicamente e socialmente, ma questo presuppone – come ha recentemente scritto Tariq Fancy, capo degli “investimenti sostenibili” di BlackRock fino al 2020 – un ruolo attivo dello Stato nella regolazione e diretto nell’economia.
E che Piano di ripresa ha scritto invece il buon Cingolani, al cui ministero pertiene circa il 40% dei fondi del Recovery? A leggerlo una non libera rielaborazione di progetti già presentati da grandi imprese, le uniche considerate in grado di spendere in tempo utile i soldi in arrivo dall’Ue, a cui dunque viene assegnata una corsia velocissima per le autorizzazioni: la rinconversione delle raffinerie per produrre carburanti (waste to fuel dell’Eni); lo stoccaggio di CO2 (sempre Eni a Ravenna); mega-impianti per rinnovabili in aree industriali (Enel); gasdotti per ogni dove, ivi compresi i due per la Sardegna bocciati dall’Autorità per l’energia, per cui è stato preso in giro persino da John Kerry (Snam); i poteri sull’end of waste, cioè quali rifiuti smaltire e come, attribuiti alle Regioni (Confindustria Ambiente).
Si potrebbe continuare, ma il punto è che Cingolani (o chi per lui) ritiene che la transizione energetica sia far pagare allo Stato gli investimenti in gas – che resta un fossile, anche travestito da idrogeno – di grandi aziende e affidarsi al laissez-faire paesaggistico e industriale, altrettanto sussidiato, quanto alle rinnovabili.
Se avanza tempo si può scrivere, come nel dl Semplificazioni, che gli inceneritori di rifiuti sono opere strategiche per la transizione, si possono autorizzare un po’ di trivellazioni in mare o buttare lì che sul nucleare bisogna essere pragmatici, guardare ai numeri: “Si stanno affacciando tecnologie di quarta generazione, senza uranio arricchito e acqua pesante. Ci sono Paesi che stanno investendo su questa tecnologia, non è matura, ma è prossima a essere matura”.
La previsione ottimistica (tipo Il Sole 24 Ore) è 40 anni almeno, quando i bambini di Genova o Napoli avranno – secondo Cingolani – l’acqua alle caviglie. Pare che il pragmatismo dalle parti di Ponte di Legno sia fare copia e incolla delle proposte delle imprese: ma d’altronde non fece lo stesso col Jobs Act il dante causa del prezioso convegno.