(Giuseppe Di Maio) – Quando mi travolse la simpatia per i giovani pentastellati, corsi ad iscrivermi al meetup cittadino, frequentai il Blog di Grillo, e più tardi mi iscrissi a Rousseau, la piattaforma del M5S. Non avevo sbagliato. Sebbene con discreto ritardo imposto dalla mia consuetudine ideologica, avevo capito che il Movimento era una vera rivoluzione nel panorama politico italiano. Come tutti gli entusiasti cominciai a definire il Movimento un progetto di democrazia compiuta, il rinnovamento dello spirito italico e, come avrebbe detto Francesco Alberoni, il più significativo “stato nascente” dalla Costituzione ad oggi.

Nella descrizione delle stelle e tra le indicazioni del blog (successivamente anche in Rousseau) non trovavo però i motivi tradizionali della mia ideologia. Acqua pubblica, ambiente, mobilità sostenibile, sviluppo e connettività, mi sembravano solo obiettivi pratici di lotta politica; motivi giusti, ma insufficienti a descrivere la trasformazione sociale che io desideravo. Considerai allora l’onestà con la sua pratica (conditio sine qua non per partecipare al programma delle stelle) la categoria più significativa per una rivoluzione, parola d’ordine da accostare a quelle storiche di giustizia e libertà.

Tuttavia, il neonato Movimento non intercettava agevolmente le contraddizioni costanti di una società liberal democratica, e spesso si fidava proprio dei suoi nemici, ad esempio degli apparati repressivi di Stato come il sistema giudiziario e i suoi magistrati. Ma nel pantano del berlusconismo e del suo anti la tempesta che aveva suscitato era stata sufficiente a smuovere le passioni politiche. L’universo radicale fu mobilitato, e il vento del cambiamento soffiò per l’intero serbatoio reazionario. Ogni italiano si fece un M5S a sua immagine. E, sebbene i grillini non indicassero vere e proprie rivolte, spaventarono a morte i conservatori restati immuni dalla temperie delle stelle, i quali immediatamente intuirono la minaccia degli onesti alla loro prosperità.

Fu allora che nel Movimento la rivoluzione sociale e quella liberale si confusero; fu allora che il progressismo fece proseliti persino tra i reazionari. Gli attivisti destrorsi, i leghisti in pectore, gli apolitici sviluppatori di tecnologie innovative, e i profittatori dell’inadeguato sistema di selezione della classe dirigente divennero più numerosi di coloro a cui interessava la giustizia sociale. Lamentarsi di ciò che stava accadendo significava attirarsi le ire dei disonesti, gli unici a cui piaceva trincerarsi dietro una presunta ortodossia a 5 stelle. Il pasticcio era pronto. L’onestà, da categoria rivoluzionaria, divenne discriminante formale di lotta politica.

Il Movimento, che tanto cantava la volontà popolare, in realtà disprezzava la democrazia. Peccato che lo denunciasse solo chi lo lasciava per indegni motivi. Persino il popolo della rete era ormai chiamato a confermare esclusivamente decisioni di vertice attraverso quesiti tautologici. E Beppe Grillo, paradossale campione di questo disprezzo, parlava ancora di maggioranze assolute e di partecipazione popolare. Purtroppo lui si era limitato a eccitare le speranze politiche degli italiani senza aver davvero fiducia nella saggezza collettiva.

E dopo aver pasticciato con la proposta politica, con le scelte di governo e le strategie, affida a una persona veramente onesta il compito di rifondare il suo garbuglio, senza però accertarsi del verso di questa rifondazione. L’unica opposizione l’ha fatta quando gli è stata rifiutata la diarchia. E se non sapere ancora chi comanda nel Movimento è indice di un partito personale che non riesce a diventare democratico, il non conoscere tuttora quali siano i suoi obiettivi sociali e quali le classi a cui si rivolge è il segnale più vistoso di un pasticcio che deve presto avere soluzione.