(Stefano Rossi) – Lasciando da parte la questione puramente tecnica (la sentenza della Consulta di ieri era prevedibile e non modifica nulla se il Parlamento saprà trarre insegnamento) vorrei soffermarmi sul dibattito che si è innescato in Italia tra coloro che si professano a gran voce “garantisti” e coloro che, tacciati da questi, vengono chiamati in modo offensivo “giustizialisti”.
Ho letto gli interventi di Caselli, Davigo, Di Matteo, Marco Travaglio, i quali sono per il mantenimento dell’ergastolo, senza sconti, per via del fatto che la lotta alle mafie deve prevedere una risolutezza dello Stato (la semplificazione è tutta mia), poi ho letto l’intervento del procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, il quale, è di tutt’altro parere.
Così pure l’intervista al Prof. Giovanni Fiandaca, anch’egli del parere che l’ergastolo, come pena fissa, non dovrebbe appartenere al nostro ordinamento perché la pena e quindi il carcere deve educare il condannato che si può ravvedere anche dopo tanti anni di internamento e non deve essere obbligato a collaborare con la giustizia.
Il direttore de Il Riformista, Piero Sansonetti, ha scritto a tal proposito: “Salvini, Travaglio e Di Matteo: la strana alleanza che fa carta straccia della Costituzione”.
Allora, visto che si parla di Costituzione io, come sempre, vado a leggere cosa hanno scritto coloro che la Costituzione l’hanno pensata, discussa e poi scritta.
L’art. 27 Costituzione, comma III,: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Prima di scrivere che coloro che vorrebbero mantenere l’ergastolo come pena fissa farebbero “carta straccia” della Costituzione, io sarei molto, molto più cauto.
Gli on. Giovanni Leone e Bettiol presentarono l’emendamento sostitutivo: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità o che ostacolino la rieducazione morale del condannato”. Svolgendo questo emendamento, l’on. Leone dichiarò di ritenere che la Commissione non avesse voluto prendere posizione nei confronti del «secolare problema della funzione della pena» né quindi “stabilire che il fine principale della pena sia la rieducazione”; egli credette di individuare il pensiero della Commissione attribuendo alla formula lo scopo di “individuare un fine collaterale nella esecuzione della pena, il fine, cioè, di non ostacolare il processo di rieducazione del reo” ; e pensò che la sua proposizione fosse più idonea a rendere questo concetto (A. C, pag. 2879).
Preciso che il Prof. Giovanni Leone insegnava diritto processuale penale e il suo manuale era assai noto tra gli studenti per chiarezza di pensiero.
Ma l’on. Tupini, a nome della Commissione, concordò solo in parte con la tesi dell’on. Leone: “Si sono proiettate in queste discussioni le preoccupazioni che hanno riferimento alle scuole filosofiche. V’è la preoccupazione di chi è più ligio alla scuola classica, l’altra di chi è più ligio alla scuola positiva, e il timore che la nostra formula aderisca più all’una che all’altra e viceversa”. L’on. Tupini disse che la Commissione non intendeva affatto prendere posizione in favore dell’una o dell’altra scuola.
Anche l’on. Moro fu di questo parere e giudicò che la formula del progetto poteva essere intesa dal futuro legislatore come “fondamento di una pretesa a orientare la legislazione penale italiana in modo conforme ai postulati della scuola positiva” e che l’esigenza, fondamentale sì, ma non unicadella rieducazione del condannato, era sodisfatta pienamente con l’emendamento Leone-Bettiol.
Pertanto, solo colui che ignora la ratio legis dell’art. 27 Costituzione, III comma, può cadere nell’errore di considerare “fare carta straccia” la Costituzione solo per aderire alla tesi più rigida. Invero, in sede di scrittura dell’articolo si discusse molto e, anzi, appare proprio dalle valutazioni dei Padri costituenti che la pena debba tendere alla rieducazione ma non necessariamente è questo il suo unico scopo.
Vi è poi la chiarezza del termine “deve tendere alla…” che non vuol dire “deve rieducare ”.
Tra la prima e la seconda frase c’è un abisso.
Vuol significare che l’articolo in commento si fa carico in primis che la pena non sia mai degradante e rispetti, quindi, l’essere umano in quanto tale, e che, di conseguenza, deve cercare una risocializzazione o se si vuole una rieducazione del condannato soltanto in modo “tendenziale”, cioè, si deve tentare di rieducare attraverso tutte le misure che si possono intraprendere all’interno di un istituto carcerario come per esempio, la scuola, la lettura, la presenza di un prete, l’attività lavorativa. Ma queste attività non sono le sole che possono portare alla ri-socializzazione del condannato. Questi può lavorare, leggere, andare a messa eppure rimanere quello che è, non pentirsi di quello che ha fatto, anzi, la detenzione potrebbe rafforzare il suo intento criminoso. Fenomeno tutt’altro che raro negli  internati.
Quindi la “rieducazione” non è un passaggio lineare o automatico; passa attraverso numerose forme di comportamento tra il recluso e le istituzioni carcerarie.
Se la pena deve rieducare allora non siamo più in uno stato democratico.
Questa teoria mi ricorda i laogai cinesi; il lavoro come rieducazione dei “controrivoluzionari”.
Difatti è passata ad una certa storia il concetto che i gulag non fossero campi di sterminio ma di rieducazione.
Così come quelli cinesi verso la minoranza musulmana: sempre di rieducazione si parlava.
Nel nostro ordinamento la pena deve invece essere sempre rieducativa solo nei confronti dei minori. Infatti, nel processo penale per i minorenni troviamo questo principio alla base di tutte le pene eventualmente inflitte.
Ma se è così ben evidenziato solo per i minorenni, una persona avveduta una domanda se la pone: e per i maggiorenni?
Se partiamo dal principio che un minorenne è per la legge soggetto incapace di intendere e volere, la risposta non può che essere una: il maggiorenne deve decidere se in carcere vuole rivedere le sue scelte, i suoi errori, pentirsi e redimersi.
Qui, il grande dilemma: se non passa attraverso questa espiazione spirituale può meritarsi gli sconti di pena?
Ecco che la Corte Europea sostiene che, a differenza di quello che pensa la magistratura antimafia, anche colui che non si redime, che non si pente, che non collabora, deve godere di premi e sconti in quanto, la sua pena, deve essere rieducativa.
Quindi, colui che si è macchiato di gravissimi reati, che non si pente, o pur pentendosi non collabora, può avere sconti di pena.
L’unico limite a questo trattamento penitenziario più favorevole è la prova che ancora persistono i legami con l’organizzazione criminale.
Prova a carico dello Stato non del detenuto.
Quindi quasi impossibile da provare.
Pensate se un calabrese mafioso, ristretto a Sulmona o Alessandria, possa ricevere visite o telefonate dai sodali criminali del suo paese.
Le visite saranno tutt’al più dei parenti più stretti e nulla più.
Qui legami si interrompono per definizione e solo la sua uscita dal carcere può facilitare, eventualmente, la ripresa dei contatti.
Ecco il corto circuito del ragionamento alla base di coloro che plaudono all’abolizione dell’ergastolo come pena fissa.
Gente che si preoccupa più di garantire i diritti ai criminali che facilitare le indagini e la lotta alle tante mafie che impestano questo Paese.
E’ bello sostenere pensieri così puri, così pieni di rispetto per tutto l’universo, poi però la realtà dei processi, della cronaca, degli operatori sociali, delle polizie giudiziarie, ci sbattono in faccia situazioni che noi non possiamo immaginare.
Per esempio, e concludo con un esempio,  oggi rimane un problema quello di intercettare le comunicazioni con i satellitari, su Skype, su WA crittografati. Se non riesci a mettere un trojan nel telefonino diventa impossibile. Rimarranno solo le comunicazioni intercettate dal cellulare di comodo con il prete del paese dal quale emerge il ravvedimento.