(di Andrea Zhok) – Ora, se c’è una cosa perfettamente chiara a chiunque abbia una conoscenza anche scolastica di Dante Alighieri, è che il poeta e l’uomo erano di una serietà mortale, davvero “d’altri tempi”.
L’edificio della Commedia è il più ambizioso edificio filosofico-poetico della storia della letteratura, in cui si parla del cosmo, di Dio, del senso della vita e della morte, in cui si espongono peraltro anche numerose teorie scientifiche e in cui si fa spazio alla polemica politica più fervente e fondante.
Ecco, quando comparve sulla scena il Benigni a recitare Dante, inizialmente aveva la giustificazione di, come si dice, “sdoganare” Dante in un formato che non intimorisse l’utente televisivo medio, magari memore di qualche brutto voto giovanile. E fino a quel punto, pur essendo chiaro che si potevano trovare cento modi migliori di “ringiovanire” Dante e di renderlo accessibile, fino a quel punto l’operazione poteva avere almeno il senso della novità e della sorpresa: “Chi mai avrebbe detto che si poteva fare?”
Insomma era una provocazione culturale che poteva avere il senso di un cambio di prospettiva rinfrescante, nonostante i suoi enormi limiti.
Solo che dopo di allora, anno dopo anno, comparsata dopo comparsata, oramai Johnny Stecchino è diventato il nuovo Vate della Lectura Dantis.
Ammiccante, gioviale e spensierato, orgogliosamente buffonesco, e soprattutto ubiquo in ogni qualsivoglia occasione ufficiale, il Benigni è stato oramai eretto a nuovo standard culturale dell’esegesi dantesca. (Proprio come Allevi è diventato il nuovo standard della musica-classica-per-tutti.)
Poteva essere interessante, provocatorio, vedere un guitto pop confrontarsi con una figura abissalmente seria come quella di Dante. Una volta. Già la seconda era uno scherzo durato troppo. Ma ora si è dimenticato completamente ogni parametro, ogni proporzione è scomparsa. Il giullare non è più la provocatoria novità, ma è diventata l’ultima autorità su qualcosa che proprio antropologicamente, vorrei dire ontologicamente, gli è completamente fuori portata.
Ecco, è sbagliato prendersela con Benigni o con altri che vengono invitati a fare queste cose. Sono invitati, li pagano, è il loro mestiere, lo fanno. Punto.
Il punto tragico è il funzionamento della macchina di promozione culturale che dovrebbe “mediare l’alta cultura” e divulgarla. Il problema è l’idea di “divulgazione” che ha chi manovra quella macchina e che spreca soldi pubblici per far fare passerelle a facce note, pensando che divulgazione sia quella cosa là.
Siccome per questi se hai una buona audience parlando di Dante vuol dire che hai fatto ottima divulgazione, proporrei di aggiungere alle recitazioni degli intermezzi di Wrestling e qualche grazioso Burlesque: scommetto tutto su un ulteriore incremento negli ascolti.
Il problema, e dev’essere chiaro, non è essere sprezzanti verso la divulgazione.
In una democrazia la divulgazione è cruciale e dovrebbe essere il più importante dei compiti della televisione pubblica.
Solo che divulgazione non è volgarizzazione, diffusione non è auditel, propedeuticità non è riduzione al minimo comune denominatore tra l’uomo e il bonobo.
Divulgare bene è qualcosa di molto complesso, che richiede padronanza di molti linguaggi e molte competenze. Ma nessuno si occupa di promuovere davvero qualcosa del genere. E la completa incapacità di progettare qualcosa di simile ad una divulgazione qualificata è un marchio distintivo della nostra TV (con quasi 2 miliardi di soldi pubblici).