(Pietro Salvatori – huffpost) – Chi si aspettava una discesa in campo entro Pasqua rischia di rimanere deluso, la data dell’investitura di Giuseppe Conte a leader del Movimento 5 stelle non è ancora matura. L’ex premier si muove senza remore da leader in pectore. L’incontro con Enrico Letta alla sede dell’Arel archivia in un battito di ciglia anni spesi appresso allo streaming con Pierluigi Bersani e Matteo Renzi, le rutilanti denunce alla procura della Repubblica contro il patto del Nazareno. Conte inizia a tessere una tela che nei suoi desiderata è quella che lo dipinge come federatore e riferimento dell’area giallorossa, una tela che vede ancora tanta parte del gomitolo nel cassetto.

“Il problema di Conte è Roma”, spiega chi lo conosce bene. La partita romana è un affare spinoso un po’ per tutti gli attori in campo e per la risonanza nazionale della campagna elettorale per il sindaco della Capitale. Il professore di Firenze non ha nessuna intenzione di assumere la guida del Movimento ritrovandosi a dirimere dei nodi interni che hanno il crisma dell’insolubile, che si chiamano Virginia Raggi e Davide Casaleggio.

Sul secondo si è detto molto, un solco politico e di prospettive che è stato scavato negli ultimi mesi, un futuro in bilico fra la semplice fornitura di servizi e la frattura totale, ma la prima rischia di essere la prima vera pietra d’inciampo della gestione Conte. “La ricandidatura della Raggi è una minaccia per la città”, l’ha bruscamente gelata ieri Nicola Zingaretti. “Parole come pietre”, la risposta della sindaca. Un livello della discussione che ha un’eco ben al di fuori del Grande raccordo anulare, e che si pone come limite e frattura nel rapporto fra gli alleati. Letta ha preso tempo congelando la candidatura di Roberto Gualtieri, ma troppo in là non si potrà andare, nel giro di qualche settimana va trovata una quadra – anche con Carlo Calenda – per non arrivare impreparati alla campagna elettorale.

Conte non ha fretta, anzi. Anche la grana Raggi, come quella Casaleggio, ha delle fortissime implicazioni interne, scava fossati, crea inimicizie, divide il Movimento. Anche per questo l’ex premier non ha nessuna intenzione di intestarsi la risoluzione quasi impossibile di un problema che erediterebbe dal passato. “Conte aspetterà che si siano chiarite le posizioni in campo per poi ufficializzare l’accettazione del ruolo di capo politico che Grillo gli sta offrendo”, spiega un 5 stelle di rango. D’altronde l’avvocato del popola sa che prima dell’investitura dovranno passare almeno tre settimane solo dall’indizione delle votazioni online, sempre che i rapporti con Rousseau non si sfilaccino al punto dal dover valutare altre strade, e anche questo è un problema. Prima occorre cambiare lo Statuto, e se il quorum, come possibile, non dovesse essere raggiunto dovranno passare altri 7 giorni prima della seconda votazione. Poi, dopo un’altra manciata di giorni, la consultazione sul suo nome come nuovo leader. A Roma probabilmente si andrà a uno scontro, con la prima cittadina niente affatto intenzionata al passo indietro, costringendo il Movimento a una difesa d’ufficio di cinque anni di amministrazione 5 stelle, “perché se si candida non possiamo non appoggiarla”.

Le ripercussioni generali sull’alleanza sono imprevedibili. Conte ha assicurato Letta di voler mettere ordine nei rapporti tra alleati, ma rischiare di affrettare i tempi per intestarsi, quale esordio della sua segreteria di partito, un fallimento come probabile sia l’accordo su Roma significherebbe una partenza azzoppata. Ecco perché, spiegano dai vertici M5s, “ci sorprenderemmo se lo vedessimo capo politico prima di maggio”.

E pazienza se i pentastellati continuano a essere privi di leadership, un vuoto che è stato per certi versi drammatico nei giorni della crisi di governo e oggi più assorbibile per la ricomposizione intorno a Mario Draghi e anche perché la parte più barricadera ha ormai consumato la propria scissione. Grillo lo prova a riempire a modo suo. Appena insediatosi Draghi, ha guardato con un certo sconcerto i parlamentari 5 stelle andare in tv ed essere vaghi e generici (nel migliore dei casi) o balbettanti e confusi (nella peggiore) su cosa caspita significasse quella Transizione ecologica sulla quale si era battuto al punto tale da pretendere un ministero ad hoc. Da lì nasce lo stop alle trasmissioni politiche, una mordacchia che sembra un revival delle origini, ma che non è uno stop tout-court. Il fondatore sta infatti organizzando una serie di corsi online per formare la truppa proprio sui temi a lui cari, “che dobbiamo recuperare, se vogliamo distinguerci in un governo in cui stiamo con tutti”. Confida molto nell’aiuto di Marco Morosini, professore di Politica ambientale al Politecnico di Zurigo, un lungo passato di simpatie con il Movimento e soprattutto con Grillo, prima raffreddatesi e adesso tornate in auge. Nel 2019, in un libro intitolato “Snaturati”, scrisse  che” il Movimento era l’unico partito ad avere in mano il jolly verde. Ma lo ha scartato. Invece di puntare su un messaggio positivo e moderno, si è snaturato e si è dedicato a ringhiare contro i nemici”. La sua conclusione è stata fatta propria da Grillo: “Per salvarsi deve cambiare discorso, programmi e personale”. L’operazione Conte, il silenziatore momentaneo alle presenze in tv, sono tentativi di andare in questa direzione.