La sua comicità era un vertice di abbagliante metafisica. Dedicate al genio del principe De Curtis le ultime pagine di Paolo Isotta

(Pietrangelo Buttafuoco – ilfoglio.it) – Braccia conserte sotto al mento a modo di tibia incrociate. L’occhio sbarrato come a segnalare le orbite svuotate di bulbi e pupille da tempo inghiottite dai vermi. E un sorriso bieco, infine – il vacuo ghigno del Nulla – per rappresentare con la propria capa la morte in persona.

Ecco Totò nella pantomima macabra del teschio, ed ecco Paolino nostro che nel giorno 12 dello scorso febbraio s’è fatto trovare dalla cameriera e cuoca, la signora Valentina succeduta da poco alla defunta Immacolata, già storica cameriera e cuoca di casa Isotta. Eccolo, dunque, Paolino nostro: vestito di tutto punto, con una polo grigia abbottonata anche all’ultimo bottone, con sopra di questa un pullover rosso scuro, pantaloni di velluto marrone chiaro e mocassini anch’essi di colore marrone. Palpebre calate, gli occhi sentimentalmente chiusi a fessura e già freddo – piedi a paletta – pronto per il tabuto Paolino nostro perché come noi tutti, e soprattutto lui, è serio e appartiene alla morte. A vegliarlo – prima dell’arrivo della domestica – c’erano San Gennaro, Benito Mussolini e Totò, il principe de Curtis, ovvero il Sommo Comico cui il professore Isotta, professore emerito del Conservatorio di musica di Napoli, in data 18. X. MMXX – giorno del suo compleanno – licenziava un libro a lui dedicato e oggi edito da Marsilio col titolo “San Totò”.

Paolo Isotta (Napoli, 1950-Napoli, 2021) che scrive a proposito di Totò non è un eccentrico erudito alle prese col pittoresco bensì il professore – ex cathedra – impegnato in una lectio magistralis o, ancora meglio, in una summa di sapienza e creazione in tema di scienza perfettissima: la comicità di Antonio de Curtis che è, senza tema d’incorrere in blasfemia, vertice di abbagliante metafisica.

E già qui, in sede di recensione, si deve essere in disaccordo con Paolino nostro quando di questo suo lavoro, mette sull’avviso il lettore scrivendo “non è un libro scientifico, è una flânerie in quell’universo chiamato Totò”. Proprio no, pecca di umiltà Paolino nostro perché “San Totò”, al contrario, è la cristallizzazione di una metamorfosi, giusto quando con Ovidio – a meno che la scienza sia un’altra cosa – leggendo Isotta trasmutato nell’oggetto del suo studio, si può ben convenire: “La natura col suo ingegno simula l’arte”.

Ciascun genio si crea i propri precursori. Un intero capitolo della “Storia della letteratura latina” – quella di Ettore Paratore – è dedicato a Plauto ma sta descrivendo, a proposito dell’italum acetum, Totò. Il Sommo Comico ha solo dieci anni quando Luigi Pirandello dà alle stampe il suo saggio “L’umorismo” per adoperarsi sulla esatta distinzione fra ironia, facezia e – appunto – umorismo “e noi ci accorgiamo”, scrive Isotta, “che Totò è così molteplice da essere anche al tempo stesso un ironista e un umorista”. Se la scienza è dunque chimica, magma materico, onda-corpuscolo, allora Isotta, alle prese con l’arte di Totò – al pari di un Werner Heisenberg con lo studio dell’elettrone – ci porta ad asserire l’impossibilità di conoscere, e con precisione, sia il momento e sia la posizione di un innesco comico totoano nel senso proprio del principio di indeterminazione.

Ogni battuta – ogni gag – è un’esplosione incontrollata. Impossibile è calcolarne la traiettoria. Arriva fino a Pio XII che ne elogia “la sana letizia popolare” per far ritorno all’imprevedibile pristina crudeltà oltre ogni copione, “nell’invece radicale” – dice Roberto Escobar – “portato alle estreme conseguenze”. Quando Totò giunge alla lettera “o” in una dettatura – quella della lettera dei fratelli Caponi – aggiunge “O come Torino”. Ebbene, dov’è il momento, e dove è la posizione dell’innesco?

Dovendo grattarsi la testa, il principe de Curtis, si gratta la bombetta nel crescendo surreale di una marionetta snodabile di giocondo e puro assurdo. E questo è Totò che travalica, nella sua universalità, la stessa Napoli e la stessa Italia. E questo è Paolino che ne attraversa il genio svelandolo a beneficio nostro (a disdoro degli intellettuali che lo disprezzarono Totò, fin sul ciglio della fossa) e a dispetto di Totò stesso, inconsapevole della sua stupefacente arte: “Era immensamente modesto”, così scrive Isotta, “e, come molti hanno dichiarato, non comprendeva la sua stessa grandezza. Onde se n’esce con questa dichiarazione: ‘Credetemi, mai nella mia vita ho avuto l’ardire di paragonarmi a quel genio di Charlie Chaplin’. C’è – ecco la giusta confutazione – da fare solo: Buum!”.