IL LEADER E LA MOSSA DEL CAVALLO

(Sergio Rizzo – la Repubblica – Edizione Roma) – A guardare ciò che sta accadendo dentro il Partito Democratico è davvero difficile dare torto a Nicola Zingaretti. Anche se forse il gesto delle dimissioni sarebbe stato più comprensibile come conseguenza delle ripetute sconfitte della linea del segretario nella partita del governo. La prima quando ha dovuto malvolentieri piegarsi a fare un esecutivo insieme al Movimento 5 stelle, per giunta con Giuseppe Conte dopo aver invocato almeno una radicale discontinuità.

E la seconda con il fragoroso fallimento del suo piano di far nascere il governo Conte ter.

Per prevedere che cosa potrà accadere adesso si dovrebbe entrare nel campo della chiaroveggenza. È anche possibile che le dimissioni si trasformino nella mossa del cavallo, con una riconferma che paradossalmente rafforzerebbe Zingaretti.

Ma certo in un momento come questo, con una sfida enorme da giocare a Roma, dove si deve votare per il rinnovo del sindaco dopo l’ avvilente esperienza degli ultimi anni, un segretario dimissionario non è il miglior viatico per una rimonta già problematica in partenza.

Vero è che la decisione di rinviare le elezioni di qualche mese forse dà un po’ di respiro ulteriore a chi pensa di farcela a dispetto di sondaggi ingenerosi. Ma il fatto è che pur con un segretario nella pienezza delle sue funzioni, di fronte a una scommessa di tale portata, il Pd è apparso in piena paralisi. Incapace di esprimere una linea precisa sulla scelta dell’ eventuale candidato, e ancor meno capace di individuare un profilo di candidatura credibile.

Non parliamo dei nomi che sono circolati, dalla parlamentare Monica Cirinnà madrina della legge sulle unioni civili, fino all’ ex ministro dell’ Economia Roberto Gualtieri rimasto senza ministero ( peraltro nessuno con i crismi di una possibile reale investitura). Bensì di una strategia. Del tutto inesistente a meno di tre mesi dalla naturale scadenza elettorale.

Non bastasse il disorientamento interno, ad aggravarlo è subentrata proprio la mossa politica del segretario, che spinge il Pd verso un’ intesa di ferro con il M5s: per cinque anni, dettaglio niente affatto trascurabile, il nemico giurato del Pd romano. Un Movimento, per giunta, che si presenta all’ alleato in totale disarmo. Quindi con la prospettiva di non rappresentare di sicuro un punto di forza in una eventuale coalizione.

Semmai, un problema in più. Soprattutto a Roma, dove al mal di pancia del Pd locale si somma quello di molti suoi elettori, i quali hanno vissuto come un incubo la gestione grillina della città. Tutto vorrebbero vedere, ma non Virginia Raggi ancora sindaca di Roma. Fosse pure nella veste di alleata. In questo scenario chi si appiglia al potere taumaturgico delle primarie rischia di prendere una bella cantonata.