(Matteo Cruccu – corriere.it) – «Si scioglie il complesso dei Led Zeppelin»: quarant’anni fa esatti così il Corriere registrava la fine della più grande rockband di sempre, con uno scarno box perso tra i film nei cinema d’essai e a luci rosse. Altrettanto scarno del resto era stato il comunicato con cui la band aveva detto addio dopo dodici anni di fuoco: «Vogliamo che si sappia che la perdita del nostro caro amico insieme alla nostra armonia indivisibile, ci ha portato a decidere che non potevamo continuare come prima».

Sì, non ebbero bisogno di molte parole i Led Zeppelin quando optarono per prendere la decisione più naturale: non sopravvivere alla morte di John Bonham, formidabile batterista che due mesi e mezzo prima era stato portato via dai suoi fantasmi (e dalla vodka), a soli 32 anni. In questo dimostrando la loro diversità e la loro superiorità rispetto a tanti colleghi che si sono affannati a continuare anche dopo svariate dipartite.

La diversità: quattro individualità così imponenti raramente si sono registrate nella storia del rock. Bonham era solista tanto quanto Robert Plant alla voce e Jimmy Page alla chitarra, ma anche John Paul Jones, bassista insostituibile.

E con Plant, Bonham aveva condiviso fortune e sfortune, partendo con lui da puzzolenti taverne delle campagne delle Midlands prima di conquistare il mondo. Non avrebbero potuto tradirlo Robert e soci sostituendolo con un altro mestierante.

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E la superiorità: accettare che il proprio tempo è limitato e lasciare al massimo, invece di trascinarsi in stanche reunion alla ricerca del profitto (gli Zeppelin ce le hanno perlopiù risparmiate, salvo rare eccezioni), significa scolpire per sempre la propria immortalità.