(di Andrea Scanzi – Il Fatto Quotidiano) – Circola in Rete un video esilarante.Una conduttrice del Tg1, testuale, a un certo punto, dice: “Il ministro della Speranza, Salute”. Errore sublime e al contempo illuminante. Sublime, perché un ministro della Speranza in effetti non ci farebbe male (ancor più se si chiamasse Salute). E illuminante, perché il ministro reale non è mai stato un gran campione nell’attirare l’attenzione. Il che, di per sé, non è necessariamente un difetto. Vuol dire non brillare in carisma, ma vuol anche dire a volte lavorare duro lontano dai riflettori. Ed è questo il caso.

La storia di Roberto Speranza, nato il 4 gennaio 1979 a Potenza, è assai singolare. Fino a questo governo sembrava, e mi sa che era proprio error nostro, un “pollo di allevamento” (per dirla con Pasolini e Gaber-Luporini).Travolto mediaticamente da un quasi esordiente Di Battista all’inizio della precedente legislatura, per un po’ ha incarnato “l’uomo dell’establishment” se rapportato alla scapigliatura del primo grillismo. Poi però, giorno dopo giorno, Speranza ha fatto capire perché Bersani l’abbia sempre adorato. Proprio l’allora segretario Pd, nel 2012, scelse lui, Alessandra Moretti e Tommaso Giuntella come triumvirato del giovane bersanismo arrembante. In breve tempo la seconda si ritrovò iper-renziana e il terzo evaporò. Speranza, no: fedele a Bersani fino alla fine. Il 15 aprile 2015 si dimise da capogruppo Pd alla Camera, in dissenso con la decisione del governo Renzi di porre la fiducia sull’Italicum.E due anni dopo se ne andò (con Bersani, of course). Eletto deputato nel 2018 con Liberi e Uguali, ridotto all’irrilevanza dal Salvimaio e televisivamente meno efficace di un Fratojanni. Coordinatore Nazionale prima e segretario poi di Articolo Uno, dunque in via teorica potente, ma all’atto concreto ben poco decisivo nelle patrie sorti. Poi, l’imponderabile.Salvini si suicida al Papeete, nasce il Conte-2 e Speranza entra nel governo. Però dalla porta di servizio. Non tutti lo ricordano, ma la lista dei ministri ritardò perché – giustamente – i bersaniani dissero a Conte una cosa tipo: “Okay che siamo in pochi, però al Senato siamo decisivi. Dunque non trattateci come la figlia della serva”. Così, al fotofinish, ad Articolo Uno viene dato un dicastero di peso. La Salute. A Speranza. Quello che c’era, ma non c’era.

Alzi la mano chi avrebbe previsto, di lì a qualche mese, che sul povero Speranza sarebbe caduta addosso un meteorite chiamato “pandemia mondiale”. Da comprimario a protagonista assoluto. Speranza si è giocato tutto, e se lo sta ancora giocando. Dentro il governo, ieri come oggi, resta il più terrorizzato all’idea di qualsivoglia “apertura”. Per quasi tre mesi, durante il lockdown, è andato da Floris con lo sguardo perso e una pettinatura cotonata sempre più Jackson Five, cercando di non dir nulla fingendo di dir tutto. Speranza ha sempre lo sguardo tenero di uno da cui dipende la sorte del mondo, e in effetti un po’ è così. Se potesse applicherebbe un’efferata detartrasi con la scimitarra ai vari Briatore, ma non cerca mai la polemica: non ha tempo, non ha voglia. Speranza tira dritto, sgobba molto e lavora bene. Ai fuochi d’artificio preferisce i fatti. Sarà per questo che da mesi, nelle classifiche dei politici più stimati dagli italiani, è al secondo posto. Davanti ha solo Conte, dietro ha tutti gli altri. Dalla Meloni a Salvini, da Zingaretti a Di Maio. Giù giù fino a Renzi (in fondo, ovviamente).

Sono anni che la sinistra cerca un leader: stai a vedere che lo aveva in casa da vent’anni, e neanche se n’era accorta. Fraintendendolo addirittura per un maggiordomo.